GIORGIO AMENDOLA
Nasce a Roma Giorgio Amendola. Aderisce al Partito comunista italiano nel 1929, qualche anno dopo la brutale uccisione del padre Giovanni da parte dello squadrismo fascista. Durante il regime, nel 1932, viene inviato al confino, nell’isola di Ponza. Nel 1943, partecipa alla Resistenza dirigendo l’attività dei GAP comunisti. Con quest’incarico, nel 1944 autorizza l'attentato di via Rasella, dove un gruppo di gappisti romani attacca un camion militare tedesco uccidendo 32 soldati. Dopo la guerra, viene eletto all’Assemblea Costituente. Muore a Roma nel 1980.
GIOVANNI BOCCACCIO
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Nasce tra il giugno e il luglio del 1313, a Firenze o a Certaldo in Valdelsa, figlio illegittimo del ricco mercante, dipendente e poi socio del Banco dei Bardi, Boccaccino di Chellino. Leggendaria è la notizia della sua nascita a Parigi da una nobildonna di stirpe principesca.
Dopo aver ricevuto i fondamentali insegnamenti grammaticali e letterari, verso il 1327-'28 viene mandato dal padre a far pratica bancaria a Napoli, nella succursale dei Bardi: la compagnia fiorentina che insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli detiene il monopolio delle imprese finanziarie del Regno di Roberto d'Angiò. Questo apprendistato mercantile e bancario si rivela un totale fallimento. Per sei anni non fa altro che sprecare tempo in un'attività per lui odiosa; sempre per volontà paterna ripiega sul diritto canonico, frequentando le lezioni di Cino da Pistoia (noto maestro di diritto e famoso rimatore stilnovista, amico di Dante e Petrarca), ma vi perde circa altri sei anni. Così finalmente abbandona gli studi ingrati, e da autodidatta, leggendo sia i classici sia la contemporanea produzione romanzesca cortese, si dedica interamente e avidamente alla poesia, a cui «un'antichissima disposizione dello spirito lo faceva tendere con tutte le sue forze».
Nel 1340-'41, in seguito al fallimento della Compagnia dei Bardi, richiamato dal padre torna a Firenze a una vita di ristrettezze economiche. Compone la Commedia delle Ninfe Fiorentine(1341-'42), l'Amorosa visione (1342), l'Elegia di madonna Fiammetta (1343-'44), piena di rimpianto per il mondo napoletano, ed infine il Ninfale fiesolano (1344-'46).La sua formazione intellettuale e umana si compie dunque nel più importante centro culturale italiano: lo Studio (Università) napoletano, la ricchissima biblioteca reale e la stessa raffinata corte angioina si configurano come punto d'incontro tra la cultura italo-francese e quella arabo-bizantina, attirando da ogni parte poeti, letterati, eruditi, scienziati e anche artisti come Giotto, che in quegli anni sta lavorando agli affreschi del Castel Nuovo. Questo vivace mondo culturale, l'aristocratica, elegante e gaia società della corte, gli svaghi, i diletti e gli amori di questi anni spensierati e felici si intravedono nella sua prima produzione letteraria, ispirata dall'amore per la leggendaria Maria dei conti D'Aquino, figlia illegittima del re Roberto d'Angiò: le Rime, la Caccia di Diana, il Filostrato, il Filocolo, il Teseida (terminato poi a Firenze).
Soggiorna a Ravenna, alla corte di Ostasio da Polenta (1345-'46); e poi a Forlì, al seguito di Francesco degli Ordelaffi (1347-'48). Rientrato a Firenze, nel 1348 assiste agli orrori e alla tragedia della peste (durante la quale perde il padre), poi rievocata nell'opera che rappresenta il culmine della sua esperienza creativa, il Decameron (1349-'51).
Grazie alla sua fama letteraria riceve da parte del Comune di Firenze importanti e onorifici incarichi ufficiali, come le ambascerie in Romagna (1350), presso Ludovico di Baviera (1351), e presso i papi Innocenzo VI (1354) e Urbano V ad Avignone e a Roma (1365, 1367). Nel '50 è inviato a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, suor Beatrice, un simbolico risarcimento per l'esilio del padre. Nel '51 si reca a Padova dal Petrarca per restituirgli il patrimonio familiare confiscatogli dal Comune, e per offrirgli una cattedra del nuovo Studio.
Dopo la composizione del Decameron, inizia un periodo di ripiegamento spirituale e di vocazione meditativa. Boccaccio si dedica appassionatamente allo studio dei classici, scambiando testi antichi col Petrarca, a cui è inoltre legato da un'affettuosa amicizia. Diffonde in Italia e in Europa le più recenti e mirabili scoperte di codici e opere letterarie (Varrone, Marziale, Tacito, Apuleio, Ovidio, Seneca). Nel 1359 fa istituire presso lo Studio di Firenze la prima cattedra di greco, assegnandola a Leonzio Pilato, a cui commissiona anche la traduzione dei poemi omerici. Nell'ambito di questa ampia attività filologico-erudita di tipo umanistico si collocano i suoi repertori sulle divinità classiche (De genealogiis deorum gentilium), sulla geografia (De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris), sulle più illustri figure femminili (De claris mulieribus), e maschili (De casibus virorum illustrium).
Nel 1355 o nel 1365 compone il Corbaccio. Forti scrupoli morali lo portano a meditare persino la distruzione del Decameron , ma il Petrarca in una lettera del 1364 lo dissuade, invitandolo a riflettere sui valori spirituali dell'attività letteraria. Dopo aver ricevuto gli ordini minori, nel 1360 ottiene da papa Innocenzo VI l'autorizzazione ad aver cura di anime; e l'anno successivo, si ritira a Certaldo nella casa paterna, in cui crea con Filippo Villani, Luigi Marsili e Coluccio Salutati un centro di cultura umanistica.
Nel 1362, e poi ancora nel 1370, si reca a Napoli nella speranza di trovarvi una decorosa sistemazione, ma entrambe le volte torna a Certaldo deluso e amareggiato. Nel 1373 riceve l'incarico da parte del Comune di Firenze di commentare pubblicamente la Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano di Badia, ma dopo pochi mesi, essendo sofferente di idropisia, è costretto a rinunciare alle sue pubbliche letture, interrompendole al canto XVII dell'Inferno.
Stanco, malato e angustiato dalle solite ristrettezze economiche, si ritira a Certaldo, dove muore il 21 dicembre 1375, un anno e mezzo dopo il suo amico Petrarca.
PIETRO BEMBO
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Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio 1470 da una grande famiglia patrizia. Studiò greco dal 1492 al 1494 a Messina alla scuola di Costantino Lascaris, quindi filosofia a Padova e a Ferrara. A Ferrara nel 1497, al seguito del padre ambasciatore, come poi a Mantova e a Urbino, conobbe le corti, nelle quali vigeva un particolare rapporto mondano fra cultura umanistica, letteratura volgare di moda e conversazione civile; alla corte di Asolo, l’unica nel territorio della Repubblica veneta, sono ambientati gliAsolani, dialogo platonico sull’amore.
Negli anni 1501 e 1502 Bembo ideò per Aldo Manuzio edizioni innovative di Petrarca e Dante (➔editoria e lingua). Fra il 1506 e il 1512 visse alla corte di Urbino, dove compose una prima raccolta delle sue rime e la prima versione dei primi due libri delle futureProse. Nel 1512 indirizzò a Giovan Francesco Pico l’epistola De imitatione, che lo qualificò come teorico del ciceronianesimo latino, e nel marzo 1513 il nuovo papa Leone X lo nominò segretario ai brevi, cioè epistolografo, ovviamente in latino. Così, offrendo i suoi servigi di umanista al papa, e al prezzo di rinunciare allo stato laicale, poté sottrarsi all’obbligo sociale, che la nascita gli imponeva, di servire la Repubblica con incarichi politici, reprimendo la propria esclusiva vocazione letteraria. Dopo alcuni anni frustranti trascorsi a Roma, nel 1518 Bembo si trasferì fra Venezia e Padova, dove portò a termine la composizione delle Prose, soprattutto del terzo libro sulla grammatica. L’opera, offerta nel 1524 al nuovo papa Clemente VII, nel settembre 1525 fu pubblicata a Venezia riscuotendo immediato successo. Subito dopo Bembo si dedicò a rivedere sia gli Asolani sia le Rime, opere delle quali nel 1530 uscirono le seconde edizioni. Nello stesso anno venne nominato storiografo della Repubblica di Venezia. Nel 1536 pubblicò e dedicò al nuovo papa Paolo III la raccolta dei brevi ciceroniani scritti per Leone X, e infine nel 1538 fu nominato cardinale, nonostante il carattere profano di tutta la sua produzione letteraria, come riconoscimento della sua egemonia letteraria e per interesse ad averla dalla parte della Chiesa.
Trasferitosi a Roma nel 1539, vi terminò la storia di Venezia, che lui stesso volgarizzò a Roma nei due anni successivi. Morì a Roma il 18 gennaio 1547.
ALBERTO BEVILACQUA
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Bevilàcqua, Alberto. - Scrittore e regista italiano (Parma 1934 - Roma 2013). Ha pubblicato racconti (La polvere sull'erba, 1955), poesie (L'amicizia perduta, 1961), una cronaca-romanzo (Una città in amore, 1962, su figure ed episodi della vita parmense al tempo del fascismo) e numerosi romanzi, tra cui La califfa (1964), Questa specie d'amore (1966), La festa parmigiana (1980),L'eros (1994). Come regista, B. ha diretto la trasposizione cinematografica di alcune sue opere.
VITA E OPERE
Collaboratore di vari giornali, si è occupato anche di critica letteraria ed è stato autore di alcune sceneggiature cinematografiche. Ha esordito con un volume di racconti, il già citato La polvere sull'erba, cui sono seguiti la raccolta di versi L'amicizia perduta, la cronaca-romanzo Una città in amore e alcuni romanzi dei quali, oltre a quelli citati, si ricordano L'occhio del gatto (1968); Il viaggio misterioso (1972); Il curioso delle donne (1983), La grande Giò (1986), I sensi incantati (1991), L'eros, GialloParma (1997), Gli anni struggenti (2000), Parma degli scandali (2004), Lui che ti tradiva (2006), nei quali una ispirazione intimistica viene spesso a contrasto con l'ambizione di rappresentare una società in crisi. Da segnalare inoltre le singolari opere di narrativa Lettera alla madre sulla felicità (1995) eTu che mi ascolti (2004), incentrate sul tema del rapporto fra madre e figlio, e Il Gengis (2005), romanzo articolato e complesso che ha per tema il potere. Della sua produzione più recente vanno ancora citati le raccolte di versi Le poesie (2007) e Duetto per voce sola. Versi dell'immedesimazione (2008); i libri di racconti brevi apparsi sotto il titoloStorie della mia storia (2007) e Eros II (2009), in cui B. torna a indagare su uno dei temi centrali della sua poetica, ribadendo i travagliati nessi tra sensualità, nostalgia e disillusione; il romanzo L'amore stregone (2009), in cui lirismo e senso magico restituiscono un'immagine densa e potente della femminilità; la raccolta di scritti Roma califfa (2012), ispirata alle figure ideali della Madre e della Città. Come regista B. ha diretto la trasposizione cinematografica dei suoi romanzi La califfa (1970),Questa specie d'amore (1971) e La donna delle meraviglie (1985), come anche Attenti al buffone (1975), Le rose di Danzica (1979),Tango Blu (1988).
GABRIELE D'ANNUNZIO
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Amando definire «inimitabile» la sua vita, Gabriele D'Annunzio costruisce intorno a sé il mito di una vita come un'opera d'arte.
Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'Annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori e avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici, sfruttando il mercato librario e giornalistico e orchestrando intorno alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.
Ricco di risvolti autobiografici è il suo primo romanzo Il piacere(1889), che si colloca al vertice di questa mondana ed estetizzante giovinezza romana. Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, dal quale ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli.Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 hanno grande risonanza la fuga e il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890. Compone i versi l'Intermezzo di rime ('83), la cui «inverecondia» scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera(1890).
Ritorna, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite ancora del Michetti. Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche Le elegie romane ('92) e Il poema paradisiaco ('93) e dopo i romanzi Giovanni Episcopo ('91) e L'innocente ('92), il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte. I suoi testi inoltre cominciano a circolare anche fuori dall'Italia.
Nel 1895 esce La vergine delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo e che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo «veneziano» Il Fuoco (1900); e avvia una fitta produzione teatrale: Sogno d'un mattino di primavera ('97), Sogno d'un tramonto d'autunno, La città morta ('98), La Gioconda ('99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903).
Nel '97 viene eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandona la destra e si unisce all'estrema sinistra (in seguito non verrà più rieletto). Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì. Intanto escono Le novelle della Pescara(1902) e i primi tre libri delle Laudi: Maia, Elettra, Alcyone (1903).
Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina Mancini. Nel 1910 pubblica il romanzo Forse che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia.
Vive allora tra Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle époque internazionale. Compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fa pervenire le prose Le faville del maglio; scrive la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914).
Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, esce il quarto libro delle Laudi (Merope. il quinto, Asterope, sarà completato nel 1918 e i restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai). Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici e, traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel 1921.
Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti farà cadere nel 1920. Negli anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini e il suo partito, si ritira, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo 1938.
Tratto da www.treccani.it
Giornalista e scrittrice italiana (Firenze 1929 - ivi 2006). Inviata speciale dell'Europeo e collaboratrice di alcuni dei maggiori quotidiani del mondo (Times, New York Times, Corriere della sera, Asahi Shimbun , ecc.), è stata altresì autrice di varî volumi di successo che raccolgono molti dei suoi più brillanti reportages giornalistici (Il sesso inutile: viaggio intorno alla donna,1961; Intervista con la storia, 1974; ecc.). Vasto riscontro hanno pure conosciuto i suoi romanzi: Penelope alla guerra, 1962;Lettera a un bambino mai nato, 1975; Un uomo, 1979; Insciallah, 1990. Dopo gli attentati del sett. 2001, ha scritto La rabbia e l'orgoglio, un vibrante atto d'accusa al fondamentalismo islamico che è stato ristampato nel 2009 con l'integrazione di due testi del 2002; nel 2004 ha pubblicato La forza della ragione, quasi un'appendice del precedente saggio, e Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Postumi sono stati editi Intervista con il potere (2009), raccolta delle interviste ai grandi protagonisti della storia del Novecento realizzate tra il 1964 e il 1982, il volume di discorsi inediti Il mio cuore è più stanco della mia voce (2013) e l'antologia di reportage dagli Stati Uniti Viaggio in America (2014). Nel 2013 è stata edita la biografia Oriana. Una donna, testo agile e documentato di C. De Stefano che ne restituisce un'immagine complessa e travagliata.
UGO FOSCOLO
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Fóscolo, Ugo. - Poeta (Zante 1778 - Turnham Green, presso Londra , 1827). Tra i massimi esponenti della letteratura italiana del neoclassicismo e del primo romanticismo, nella sua produzione si distinguono due linee letterarie principali: una di indirizzo romantico (i sonetti In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera, e il carme I Sepolcri), l'altra di indirizzo neoclassico (le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata, e il poema incompiuto Le Grazie). Nella corrente romantica si collocano anche le Ultime lettere di Jacopo Ortis, romanzo epistolare dal carattere autobiografico; ispirata ai romanzi di J.-J. Rousseau (La nuova Eloisa) e di W. Goethe (I dolori del giovane Werther), quest'opera si può considerare il primo romanzo italiano moderno.
VITA E OPERE
Il nome di battesimo era Niccolò; ma sin dal 1796 alternò le firme "Niccolò Ugo" e "Ugo". Di madre greca (Diamantina Spàthis) e di padre veneziano (Andrea), nato in un'isola greca governata da Venezia, egli riconobbe sempre in sé le due patrie, anche quando, venuta meno la libertà di Venezia, la sua seconda patria fu quella italiana. La madre, vedova, si stabilì nel 1793 a Venezia, e qui Ugo, precoce poeta e amatore (s'innamorò giovanissimo d'Isabella Teotochi Albrizzi), fu fervido propugnatore con l'azione e la poesia delle libertà proclamate dalla Rivoluzione francese (ode A Bonaparte liberatore, 1797; dello stesso anno è la rappresentazione di Tieste, tragedia di spiriti alfieriani, veementemente antitirannici). Nel 1797, deluso dal trattato di Campoformio, passò a Milano, dove conobbe G. Parini e divenne amico di V. Monti. Intensa qui l'attività di F. sia politica (1797-99), in senso ormai meno giacobino e più italiano, sia militare (dal 1799). Combatté contro gli Austro-Russi, partecipò alla difesa diGenova assediata, dove fu ferito (1800); fu poi dal 1804 al 1806 in Francia - scontento e amareggiato - ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Ma la sua intensa attività non gli impedì una complessa vita sentimentale: s'innamorò via via, in questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di V. Monti, di Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'"amica risanata" dell'ode famosa), l'inglese Fanny Emerytt (dalla quale ebbe una figlia: Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina Mocenni Magiotti (la "donna gentile"), che lo confortò e soccorse durante il suo esilio. Fervido fu, sin dalla giovinezza, il lavoro da lui svolto di critico, erudito, pubblicista politico, poeta. Risalgono infatti a questi anni il commento dottissimo, anche se segretamente inteso a satireggiare la pedanteria, alla catulliana Chioma di Berenice (1803), l'edizione delle Opere di Raimondo Montecuccoli (1807-08), la composizione e la pubblicazione, attraverso complicati rimaneggiamenti e travestimenti, delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1802), la raccolta in volume (1803) delle odiAll'amica risanata e A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e di 12 sonetti, la pubblicazione dei Sepolcri (1807). Nominato nel 1809 professore di eloquenza a Pavia, vi pronunciò la celebre prolusione Dell'origine e dell'uffizio della letteratura, e cinque altre lezioni; ma la cattedra fu subito soppressa. F. partecipò allora, con la veemenza che gli era naturale, ad aspre polemiche letterario-politiche, di cui restano documento gli scritti satirici Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici (1810), e l'Hypercalypsis, cominciata nel 1810 e pubblicata nel 1816, come opera di Didimo Chierico (v.). Rappresentata nel 1811 una seconda tragedia, Aiace, subito proibita per le sue allusioni a potenti personaggi e allo stesso Napoleone, F. lasciò Milano e dopo varie peregrinazioni si stabilì (1812) a Firenze. Qui riprese e rifece la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick di L. Sterne, già cominciata in Francia, e la pubblicò (1813); lavorò, secondo un proposito balenatogli forse già nel 1803, avvalendosi anche di frammenti prima composti, alle Grazie, che tuttavia non condusse a compimento. Tornato nel 1813 a Milano, si adoperò coraggiosamente in favore del pericolante Regno Italico. Gli Austriaci vittoriosi gli furono benevoli ed entrarono in rapporto con lui, pensando di affidargli la direzione di un giornale letterario; ma al punto di dover/">dover prestare, come gli altri ufficiali, giuramento di fedeltà, vi si sottrasse con l'esilio (1813), donando così all'Italia, come disse C. Cattaneo, "una nuova istituzione", cioè l'esilio volontario per amore di libertà. Fu in Svizzera sino all'anno seguente, in lotta con la miseria; poi passò a Londra (e visse ad alterni periodi nel centro della città e nei sobborghi), dove fu assai bene accolto e poté sulle prime, con i grandi guadagni che gli procuravano i suoi lavori letterarî, condurre vita agiata. Qui ebbe un ultimo, ma non corrisposto, amore per Carolina Russel (da lui celebrata col nome di Calliroe); ritrovò la figlia naturale Floriana (1822), insieme con la quale visse gli ultimi anni, tristi per miseria, per l'assillo dei creditori, per malattie. Il periodo londinese - sebbene F. lavorasse anche alle Grazie e alla traduzione dell'Iliade - fu contrassegnato letterariamente da una produzione storico-filologico-critica: lo scritto Della servitù d'Italia, iniziato in Italia e steso in massima parte in Svizzera, e la Lettera apologetica, nei quali, difendendo il proprio operato, F. indaga acutamente le ragioni della caduta del Regno Italico; la Narrazione della fortuna e della cessione di Parga , critica della politica inglese, non divulgata per ragioni di opportunità; le frammentarie Lettere scritte dall'Inghilterra, di cui fa parte il Saggio d'un Gazzettino del Bel Mondo, gustose osservazioni di costume e di psicologia sociale; gli studî d'alta filologia Sul digamma eolico, Storia del testo di Omero; e soprattutto i saggi critici innovatori, sulla nuova scuola drammatica romantica, su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante, ecc. Il poeta si spense, assistito da pochi amici, il 10 sett. 1827 e fu seppellito nel cimitero di Chiswick, donde nel 1871 le ceneri furono trasportate nella chiesa di S. Croce a Firenze.
Strettamente intrecciate si presentano le vicende personali e l'attività letteraria di F., nell'immagine di lui più divulgata e attendibile. Attraverso un autobiografismo enfatico e compiaciuto, ancorché stilizzato e ridotto ad alcuni grandi motivi, F. incarna tempestivamente l'ideale ottocentesco del poeta, incline fatalmente all'eroismo e alla trasgressione ("bello di fama e di sventura"), e, solo in questo senso, appartiene davvero alla temperie culturale del romanticismo europeo. Le opere più note illustrano con didascalica nettezza la sua prepotente personalità e alludono continuamente ai dati essenziali e emblematici della realtà vissuta, ponendo l'una e l'altra sotto il segno di una passione intollerante, quella amorosa come quella patriottica e civile. Il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, sul quale lo scrittore, dopo avergli affidato la testimonianza di una precisa delusione storica e esistenziale, tornò ripetutamente nel corso di un ventennio, costituisce, con la sua vena diffusamente autobiografica, il banco di prova decisivo del personaggio Foscolo. Quando si rende conto che "altamente oprar non è concesso", Ortis reagisce con il suicidio all'impossibilità di realizzare i suoi sogni d'amore e di libertà, fornendo un esemplare sbocco tragico all'intransigenza foscoliana e offrendola a un vero e proprio culto risorgimentale. Il personaggio non è più disperato o meno ragionevole del poeta che, messo alle strette, si risolve piuttosto all'esilio e ripiega naturalmente sulla creazione letteraria ("fama tentino almen libere carte"); ma l'identificazione tra lui e l'autore è appunto imperfetta, rinunciando F. alla diretta proiezione romanzesca del proprio Io, quale gli potrebbe consentire una vera autobiografia, pur di non rinunciare alle risorse della letteratura, al potere consolatorio della bellezza e alla tutela artistica, se non al controllo intellettuale sul proprio stesso incoercibile temperamento. Anziché ricorrere al canonico confronto con I dolori del giovane Werther di J. W. Goethe - che, prima ancora della traccia narrativa, aveva fornito al romanzo foscoliano la prova della duttilità di uno strumento espressivo capace di conciliare introspezione lirica e racconto - è dunque preferibile cercare nei dodici sonetti e nelle due celebri odi, unici superstiti della più vasta produzione rifiutata dall'autore, la conferma di come F. volesse rappresentare non sé stesso, ma la figura del poeta, già nelle Ultime lettere: un irriducibile campione dell'individualismo che nulla o ben poco concedesse alle concrete determinazioni individuali. Mentre persegue un idoleggiamento neoclassicistico della bellezza, sulla base di un'esperienza diretta dei capolavori della grecità, e trasforma questa illusione in un valore etico e gnoseologico, il poeta indulge volentieri ai forti chiaroscuri ("quello spirto guerrier ch'entro mi rugge") di un autoritratto di ascendenza alfieriana; e arriva a paragonarsi agli eroi del mito o a confessare un proprio privatissimo strazio ("Un dì s'io non andrò sempre fuggendo", che riecheggia un celebre componimento catulliano), sempre in funzione del mito personale che vuole stabilire e del tipo universale corrispondente. Analogamente, la fedeltà alla più recente tradizione italiana, tra Parini, Cesarotti e Monti, che gli farà dichiarare "sdegno il verso che suona e che non crea" e lo persuaderà a misurarsi nell'esercizio cruciale della traduzione omerica, non esclude la ricerca di più remote e prestigiose autorizzazioni per una poesia lungamente tentata da un sogno archeologico di emulazione con gli antichi e incontentabile nel suo sforzo di perfezione. Con il carme Dei sepolcri, indicativo di una vocazione all'eloquenza complementare e forse più spontanea rispetto alla insistita ricerca dell'eleganza neoclassica, la poesia si propone esplicitamente come supremo valore di un'umanità disillusa dalla vanità del tutto ("involve Tutte cose l'Oblio nella sua notte") e generosamente protesa alla pietosa perpetuazione ("finché il Sole Risplenderà su le sciagure umane") della "corrispondenza di amorosi sensi" e di quant'altro può sottrarsi al fato luttuoso cui soggiace, "tranne la memoria, tutto", secondo una coerente concezione materialistica. Senza tradursi in un improbabile atteggiamento estetistico, l'esaltazione dell'ideale poetico dovrebbe scongiurare d'altro canto il rischio che una ricerca letteraria molto più complessa si riduca a un protagonismo quasi romanzesco. Di tale complessità e problematicità, costituisce una proverbiale dimostrazione lo stato frammentario nel quale F. ha lasciato Le Grazie, da molti ritenute il suo capolavoro. I tre inni dell'incompiuto poema, intitolati rispettivamente a Venere, a Vesta e a Pallade, celebrano la missione civilizzatrice delle arti, unitariamente considerate, proponendosi come un'audace continuazione moderna della tradizione classica, arricchita di un nuovo mito e rivissuta come una dimensione dello spirito. Il significato allegorico che dovrebbe sostenere concettualmente il vagheggiamento della bellezza antica, e rappresentarne il potere conoscitivo, non riesce però a imporsi su di esso e a contenerne la tendenza alla dispersione, confermando F. poeta di "rade, operose Rime". Antesignano della leopardiana poesia sermoneggiante, F. sembra quasi sottrarsi ad essa, preferendo l'evidenza delle sue figure mitologiche, e al limite il silenzio poetico, al discorso più articolato e eloquente inaugurato dai Sepolcri. Basta del resto considerare l'esiguità della produzione poetica in un'opera vastissima e comprensiva di tragedie estremisticamente alfieriane, mirabili traduzioni, prose narrative romanticamente ispirate o divertenti, saggi letterarî acutissimi e accesi scritti politici (come risulta dai ventitré volumi dell'edizione nazionale, avviata nel 1933 e ora quasi conclusa, uno solo dei quali contiene Poesie e carmi), per correggere ogni interpretazione unilaterale. Una singolare tensione tra la lucida consapevolezza critica e lo slancio passionale, ribadita perfino dalla materiale scissione tra lo scrittore e il fondatore dei nostri moderni studî letterarî, conferisce a F. la sua inconfondibile fisionomia; fisionomia che qualcuno ha visto emblematicamente rappresentata nell'alternanza tra un'ispirazione ortisiana e un'ispirazione didimea, riferendosi, con quest'ultima espressione, alla produzione polemica e satirica (che lo stesso F. scherzosamente attribuiva al suo nuovo alter ego, il Didimo Chierico della Notizia che accompagnava la sua traduzione delViaggio sentimentale di L. Sterne), e più in genere all'animosità estrosa e ironica che serpeggia perfino nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
CARLO GOLDONI
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Goldóni, Carlo. - Commediografo (Venezia 1707 - Parigi 1793). Mostrò assai presto una viva inclinazione per il teatro, componendo verso i nove anni una commediola e prediligendo nelle sue letture gli autori comici. Nel 1719 seguì il padre, medico, a Perugia , ove studiò 3 anni nel collegio dei gesuiti. Poi il padre passò a Chioggia e lasciò Carlo a Rimini a studiare filosofia; ma il giovanetto tornò presto a casa al seguito di una compagnia di comici (1721). Nel 1723 fu messo a Pavia nel collegio Ghislieri per proseguire gli studî legali; ma nel terzo anno fu cacciato dal collegio per una satira contro le ragazze pavesi, Il colosso; si laureò solo nel 1731, a Padova , dopo aver occupato l'ufficio di coadiutore della Cancelleria criminale a Chioggia e a Feltre . In attesa di clienti, scrisse un almanacco satirico e un melodramma (Amalasunta, 1732), che poi bruciò. Dopo altre occupazioni e peregrinazioni in Lombardia e in Emilia , incontrò a Verona la compagnia veneziana del teatro di San Samuele, diretta da G. Imer , col quale tornò a Venezia, impegnandosi a scrivere per i teatri di proprietà del patrizio Michele Grimani. Del 1734 è il suo primo trionfo scenico, col dramma popolare Belisario , cui seguirono altre mediocri tragicommedie di soggetto popolare in endecasillabi, mentre nelle farse per musica che le accompagnavano, e in alcuni "intermezzi" da lui in quegli anni composti, cominciava a manifestarsi l'acutezza del suo spirito di osservazione. Nel 1736, trovandosi a Genova , s'innamorò di Nicoletta Connio, giovane figlia di un notaio, e la sposò: fu un matrimonio felice, anche se senza figli. Del 1738 è Mòmolo cortesan, di cui scrisse soltanto la parte del protagonista: era il primo passo verso quella riforma del teatro, che egli vagheggiava, e che tendeva a sostituire commedie "di carattere" e di ambiente ai canovacci, spesso solo buffoneschi, della decaduta commedia dell'arte. Dal 1741 al 1743 ebbe anche l'incarico di console della repubblica di Genova a Venezia, ch'egli disimpegnò con molta cura, ma che lo ingolfò in molte noie e spese, senza alcun compenso. Al 1743 appartengono il dramma giocoso La contessina, una pungente rappresentazione dell'albagia di certa nobiltà, e La donna di garbo, la prima commedia che scrisse interamente, nella quale, se vivi ancora sono gli artifici della commedia dell'arte, la figura della protagonista ha già una certa umana vitalità. Afflitto da debiti e ingannato nella buona fede, fu costretto nello stesso anno a lasciare Venezia e ad andar vagando qua e là, finché, accolto festosamente a Pisa , dove fu fatto pastore d'Arcadia col nome di Polisseno Fegeio, s'indusse a esercitarvi dal 1745 al 1748 la professione di avvocato: anni felici che più tardi rimpianse. Ma di quegli anni è anche la celebre commedia Il servitore di due padroni, scritta per il famoso Truffaldino, G. A. Sacco. Nel 1748 non seppe resistere agli inviti del capocomico G. Medebach, o, per dir meglio, alla sua vocazione; tornato a Venezia, si diede tutto al teatro. Il 26 dic. di quello stesso anno cominciava, al teatro Sant'Angelo, la serie dei suoi trionfi con La vedova scaltra; cui seguirono, tra il 1748 e il 1753, alcune delle sue più note e felici commedie (Il cavaliere e la dama, La famiglia dell'antiquario, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, I pettegolezzi delle donne, La moglie saggia, Le donne gelose, Le donne curiose, La serva amorosa, La locandiera). Al 1750 risale la ben nota promessa, poi mantenuta, di scrivere in un anno sedici commedie nuove. Nel 1753, separatosi da Medebach, firmò un nuovo contratto con A. Vendramin, proprietario del teatro di San Luca . Medebach, divenutogli apertamente nemico, assunse per il Sant'Angelo l'abate P. Chiari , che fin dal 1749 faceva rappresentare, con successo, al teatro San Samuele, drammi raffazzonati da romanzi francesi e inglesi, e commedie veneziane che rubacchiava a G. col pretesto di correggerle. Si formarono allora due partiti teatrali, dei chiaristi e dei goldonisti; e G., per accontentare il pubblico, fu costretto per qualche tempo, con sua grande amarezza, a ricercare continue e bizzarre novità, nelle commedie storiche e in quelle orientali (Terenzio, Torquato Tasso , Il filosofo inglese, Il medico olandese, La dalmatina, La bella selvaggia, La peruviana, La sposa persiana, ecc.: quest'ultima specialmente applaudita); ma ogni carnevale G. portava sul palcoscenico una commedia veneziana. E in quel mondo pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie, dei "paroni di tartana", delle "massère" (serve di casa), delle rivendugliole, delle "rampignone" (donne che risparmiano), dei merciai, si dispiega sovrana l'arte di G.: ricordiamo alcune mirabili scene delle Massere, delle Donne de casa soa e delCampiello. Ormai la gloria di G. era assicurata: le edizioni delle sue commedie si esaurivano rapidamente; si cominciava a tradurlo e recitarlo anche all'estero; riconoscimenti gli venivano da principi e letterati italiani. Ma non erano cessate per lui le lotte e le amarezze. Nel 1757 C. Gozzi , e per estrosità di carattere e per amore del passato, sorse contro Chiari e G. con l'almanacco satirico La tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1756, accusandoli di essere cattivi scrittori e autori di testi immorali. Nel nov. del 1758, su invito dell'impresario del teatro di Tordinona, G. si recò a Roma ; ma dopo 7 mesi tornò deluso in patria. E qui tra la fine del 1759 e il febbraio del 1762, malgrado la lotta dei suoi nemici, con inesauribile ricchezza di vena continuò a creare altre commedie famose e alcuni capolavori (Gl'innamorati, I rusteghi, Un curioso accidente, la trilogia della Villeggiatura, La casa nuova,Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte). Decise di lasciare Venezia nell'aprile del 1762 per Parigi, dove era stato chiamato per sollevare con nuove produzioni le sorti del teatro della Comédie-Italienne, che andava decadendo. Ma anche lì dovette lottare con i comici che non volevano imparare le commedie scritte e col pubblico affezionato al gioco buffonesco delle maschere, onde fu costretto a scrivere per lo più degli scenarî. Liberatosi da questo impegno, G. ottenne l'incarico di insegnante di lingua italiana della figlia di Luigi XV, e poi delle sorelle di Luigi XVI. Ne ricavò una modesta pensione. Nel 1771 fece recitare alla Comédie-Française Le bourru bienfaisant, ch'ebbe notevolissimo successo. Ma soffriva di varî acciacchi, era quasi cieco, e la pensione appena gli bastava. E anche questa gli fu tolta nel 1792; ammalatosi, morì nella miseria. Solo il giorno dopo la sua morte un decreto della Convenzione, su proposta di J.-M. Chénier, gli restituiva, troppo tardi, la pensione. Le sue ossa andarono disperse. ▭ Nell'opera riformatrice di G. riconosciamo la presenza di una gioconda fantasia e di un sicuro istinto teatrale, ma nella sua arte si riflettono gli echi della profonda crisi che travaglia la civiltà settecentesca, sia che egli metta in scena le consuetudini e i contrasti delle diverse classi sociali, sia che tragga ispirazione dalla vita della sua Venezia e dai costumi del suo popolo laborioso e "civil", ma anche amante delle burle e dei divertimenti. Scrisse più di 200 tra commedie, tragedie, tragicommedie, intermezzi, melodrammi (musicati da Galuppi, Piccinni, Paisiello, Mozart, Haydn, Sacchini, ecc.), ma la sua gloria è legata solo alle commedie. Importanti però sono anche i suoi Mémoires, che cominciò a scrivere nel 1784 e compì e pubblicò nel 1787, uno dei più piacevoli libri del sec. 18°. ▭ La personalità e l'ambiente di G. attorno al 1749-50 furono abilmente rievocati da P. Ferrari nella commedia, divenuta presto popolare, G. e le sue sedici commedie nuove (1852).
GIACOMO LEOPARDI
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Leopardi, Giacomo. - Poeta (Recanati 29 giugno 1798 - Napoli 14 giugno 1837). Tra i massimi scrittori della letteratura italiana di tutti i tempi, nella sua opera risulta centrale il tema dell’infelicità costitutiva dell’essere umano, intesa come legge di natura alla quale nessun uomo può sottrarsi. Lo Zibaldone di pensieri (pubbl. col tit.Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 7 voll., 1898-1900) e soprattutto l'Epistolario (a cura di P. Viani , 1849; a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, 7 voll., 1934-41) vanno considerati non solo come documenti indispensabili per l'interpretazione dell'anima e della poesia di L., ma come opere d'arte a sé stanti che, insieme con leOperette morali (1ª ed. Milano 1827), lo pongono anche tra i maggiori prosatori italiani.
VITA E OPERE
Primo dei cinque figli di Monaldo e di Adelaide Antici. Nonostante che la madre fosse poco espansiva e piuttosto rigida e il padre distratto dai suoi studî, la prima fanciullezza di L. fu lieta, soprattutto per la compagnia dei fratelli Carlo e Paolina, di soli uno e due anni più giovani. Sotto la guida di istitutori privati e del padre medesimo, che avrebbe inizialmente emulato e del quale avrebbe assecondato le ambizioni con un "grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria", si avviò precocemente agli studî, all'età di undici anni riuscendo tra l'altro a tradurre il I libro delle Odi di Orazio e scrivendo a quattordici due tragedie, La virtù indiana ePompeo in Egitto. Nello stesso 1812 abbozzò un'erudita Storia dell'astronomia, e nel 1815 il Saggio sugli errori popolari degli antichi; ma l'adolescente molto altro tradusse e scrisse, di poderosa filologia ed erudizione. Era cominciato il periodo di sette anni, come egli stesso disse, di "studio matto e disperatissimo" nel chiuso della ricca biblioteca paterna, che gli minò la gracile complessione. Dopo aver stretto amicizia con P. Giordani (1817), che, intuendone le doti straordinarie, lo confermò nelle sue ambizioni (continuando poi di volta in volta a incitarlo e sorreggerlo), e dopo aver composto l'anno successivo l'importante Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nel 1819 attraversò un periodo di grave crisi: impeditagli dalle condizioni fisiche anche la lettura, non gli rimaneva che meditare, approdando a quella che poi chiamerà "conversione filosofica" e toccando il fondo della disperazione intellettuale e sentimentale. Dello stesso anno è un ingenuo tentativo di fuga da Recanati, facilmente sventato; dal suo "borgo" si allontanò più tardi con il consenso dei genitori per un deludente soggiorno di cinque mesi a Roma (1822-23), dove trasse conforto solo dalla stima e dall'amicizia di alcuni studiosi stranieri. Nel luglio 1825 poté finalmente stabilirsi a Milano stipendiato dall'editoreA. F. Stella, per il quale pubblicò un commento a Petrarca (1826) e due crestomazie, di prose (1827) e di versi (1828), di autori italiani. Da Milano nel settembre 1826 si trasferì a Bologna sempre stipendiato da Stella; dal novembre 1826 all'aprile 1827 fu a Recanati; quindi passò di nuovo a Bologna e in giugno a Firenze e (inverno 1827-28) a Pisa, dove registrò poeticamente un "risorgimento" degli affetti. Nel novembre 1828, cessatogli ogni aiuto, dové peraltro tornare a Recanati; ormai, come egli credeva, per sempre. Ma il provvido intervento di P. Colletta, che con delicati sotterfugi lo indusse ad accettare, per un anno, un aiuto pecuniario suo e di altri collaboratori dell'Antologia di G. P. Viesseux con cui era entrato in contatto, gli permise di tornare nel maggio 1830 a Firenze, dove partecipò senza troppo calore di consensi alla fiorente vita letteraria e mondana della città. Qui conobbe A. Ranieri, con il quale, dal dicembre 1830, decise di vivere insieme e di mettere in comune le proprie risorse (dal luglio 1831 sarebbe riuscito a ottenere dalla famiglia un modesto assegno mensile). Nel marzo era stato nominato deputato di Recanati all'assemblea che dopo i moti di quell'anno si sarebbe dovuta tenere a Bologna, ma, prima ancora della repressione dei moti, la sua diffidenza nei confronti di qualsiasi illusione di rinnovamento politico gli impedì persino di accettare la nomina. Nell'ottobre 1831 L. e Ranieri partirono improvvisamente da Firenze per Roma, dove si trattennero sino al marzo 1832, quando tornarono a Firenze. L'improvvisa partenza meravigliò allora amici e parenti: oltre al desiderio di L. di accompagnare a Roma l'amico Ranieri, che vi si recava per seguire l'attrice M. Pelzet di cui era innamorato, c'era probabilmente qualche altra ragione, più personale, che ci sfugge. Certo essa non poté consistere, come più tardi si credette, nell'amore disperato per una signora fiorentina, F. Targioni Tozzetti: questo amore può ritenersi storicamente provato, ma il suo inizio è da collocare probabilmente nella primavera del 1833; esso si concluse con l'estrema delusione due anni dopo, quando già, sin dal settembre 1833, L. era a Napoli con Ranieri. A Napoli L. visse gli ultimi suoi tristi anni: scampato al colera scoppiato nell'ottobre 1836, morì qualche mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma. La sua salma, sottratta dal Ranieri alla fossa comune, fu tumulata a Fuorigrotta, dove più tardi fu eretto un piccolo monumento. I resti di L. furono poi trasportati nel Parco Virgiliano.
Non è esatto quel che si credeva un tempo, che gli studî eruditi e filologici di L. appartenessero alla prima giovinezza di lui e venissero ben presto abbandonati a favore della poesia: in verità L. alternò le due attività almeno sino al 1827 e fornì le prove filologiche migliori negli anni 1823-1827. Abbandonò gli studî di filologia solo nel 1830, quando consegnò i suoi manoscritti di quella materia a L. De Sinner, che aveva promesso di pubblicarli; ma anche negli ultimi anni mandava al De Sinner aggiunte a quei manoscritti, e non cessò mai di considerarli come opera di grandissimo pregio. Tali studî, specie quelli di critica testuale, lodati da B. G. Niebhur, J.-F. Boissonade, F. Nietzsche, U. von Wilamowitz, sono stati nuovamente valorizzati dalla critica più recente, che considera L. come uno dei pochissimi filologi italiani del primo Ottocento che abbia statura europea. Risale al 1816 il suo primo componimento poetico importante, la cantica Appressamento della morte; ma il 1818 è l'anno del vero inizio della sua poesia, con le due canzoni All'Italia eSopra il monumento di Dante, alle quali è da collegare strettamente, posteriore di due anni, quella Ad Angelo Mai . Il giovane poeta s'inserisce, con accenti proprî, nella tradizione di eloquente lirica civile e morale che risaliva al Petrarca, avendo come punto di partenza prossimo gli spiriti eroici di Alfieri e del Foscolo alfieriano. Egli non vede intorno a sé che ignavia e codardia: si assume il compito di risvegliare al coraggio e all'azione gli Italiani del suo tempo immemori del loro passato. Pur obbedendo a un imperativo morale addirittura eroico, l'indignato confronto tra la nobiltà degli antichi e la moderna decadenza d'ogni virtù, anziché ispirarsi alle recenti vicende politiche, sembra piuttosto nutrito di considerazioni generalmente antropologiche e ha di mira intanto un orizzonte culturale e letterario, nel quale infatti risulta più efficace e appropriato. Insieme con quella al Mai, avrebbe voluto pubblicare, e non poté farlo per l'opposizione paterna, altre due canzoni di tutt'altro argomento allora composte (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale eNella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano di un chirurgo), lasciate da L. anche in seguito fuori dei Canti, ma criticamente interessanti, poiché mostrano un poeta che già alterna ai temi civili la considerazione della privata infelicità. Allo stesso periodo risalgono anche i piccoliidilli, voce di un L. intimo e segreto, che non saranno pubblicati se non nel 1825. Tra l'ottobre del 1821 e il settembre del 1823 furono composte altre sette canzoni (Nelle nozze della sorella Paolina; A un vincitore nel pallone; Bruto minore; Alla primavera o delle favole antiche; Ultimo canto di Saffo; Inno ai patriarchi o De' principii del genere umano; Alla sua donna), che insieme alle tre precedenti L. pubblicò a Bologna nel 1824 in un volumetto di Canzoni, accompagnate da eruditeAnnotazioni, che ne giustificano le scelte linguistiche, invocando di volta in volta il buon senso e l'autorità della Crusca. La canzone a Paolina, che è lo sviluppo d'un abbozzo risalente forse al 1819, non è lontana nello spirito dalle prime tre, proponendosi concreti fini educativi: l'uomo superiore non deve deflettere dalle proprie convinzioni, anche se ciò gli costerà l'incomprensione o l'ostilità degli uomini comuni, cioè l'infelicità. Ma già nella canzone A un vincitore nel palloneappare il concetto che ogni meta è deludente e vana, che non c'è nessuna vera differenza tra il combattere per uno scopo che si reputa alto e il combattere per un gioco. E nella canzone cronologicamente contigua, Bruto minore, L. procede ancora oltre: la virtù non è che una "larva", una parola e non una cosa salda. Bruto riconosce che la rovina di Roma, come la morte di tutto, è una "ferrata necessità", contro cui è illusorio e vano lottare. Tuttavia, mentre l'uomo comune si consola del male quando lo riconosce necessario, l'uomo superiore non si rassegna al destino: non potendo più fare altro si uccide, e con ciò diventa vincitore nell'atto stesso d'essere vinto. Ma pochi mesi dopo L. compone L'ultimo canto di Saffo, nel quale la poetessa greca si uccide senza intenzioni di rivalsa: si riconosce vinta e, anziché maledire la vita, se ne distacca sconsolata di lasciarla senza averla goduta. Il titanismo genericamente romantico di Bruto giunge così a un passo dalla "fiera compiacenza" più specificamente leopardiana: dall'orgoglio, cioè, di avere lui solo il coraggio di affrontare l'orrido vero, di "strappare ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano", di non piegare il capo a tale destino; e dall'ebbrezza di dolore che da quell'orgoglio deriva. Questo particolare titanismo, trasferito dall'azione al pensiero, sarà, con diverse modulazioni, motivo di poesia costante in L. sino alla fine, secondo un'estensione del decoro formale classicistico all'ambito etico e intellettuale.
Solo nel 1825, L. si decise a pubblicare nel Nuovo ricoglitore di Milano, con il titolo diIdilli, alcune sue poesie composte tra il 1819 e il 1821: quelle che i critici usano chiamare "i piccoli idilli", cioè (come s'intitolarono definitivamente): L'Infinito, La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo spavento notturno; La vita solitaria. Esse contengono alcune delle pagine più alte di tutta l'opera leopardiana. Sono espressioni di una deliberata e fiera solitudine; eppure a esse, nell'ediz. 1835 deiCanti, L. premise Il passero solitario, composto assai più tardi, nel quale egli sente come una condanna la sua impossibilità di partecipare alla gioia e alla vita degli altri. Tale esclusione si rivela un autentico motivo informatore, perché dal piano biografico passa facilmente a quello culturale, connotando la condizione di inferiorità in cui versa la poesia moderna rispetto a quella degli antichi, e soprattutto corrisponde all'ideale di linguistica socievolezza cui L. sottopone tanto la sua opzione classicistica, quanto l'ardua sostanza intellettuale del suo messaggio. In questo senso, l'idillismo leopardiano, lungamente preferito dalla critica ai grandi componimenti degli ultimi anni, realizza effettivamente in maniera più compiuta il prodigio di un canto ricavato senza sforzo apparente dalle parole di tutti i giorni e con le immagini che sono sotto gli occhi di tutti: di un canto perciò capace di mettere la semplicità e l'immediatezza al servizio della verità universale del sentimento.
Dal 1823 al 1828, a parte l'epistola Al conte Carlo Pepoli (1826), L. tace come poeta. In questi anni egli porta alle ultime conseguenze il suo pessimismo. L'infelicità umana non è frutto di contingenze particolari a questo o a quell'uomo; e neppure nasce, come aveva creduto in un primo tempo per influsso dei pensatori settecenteschi, da situazioni storiche, dal prevalere della ragione sulla fantasia per effetto dell'avanzare della civiltà, del costituirsi degli uomini in società, che necessariamente tarpa le ali alla libertà e alla spontaneità individuale; ma è una legge di natura, alla quale nessun uomo in nessun tempo, anzi nessun essere può sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il "pessimismo cosmico" leopardiano. L'uomo non cerca altro che la sua felicità, l'amor sui è l'unica molla della vita; e tuttavia la natura non si propone la felicità degli individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la quale come sono necessarie le nascite così sono necessarie le morti. La vita non è che un più o meno lento morire: assistiamo intorno a noi, dentro di noi, al progressivo inesorabile sfiorire e morire d'ogni cosa, finché non interviene lo stacco supremo, dopo il quale soltanto si ha, nell'annullamento totale, il definitivo riposo. La vita dunque non è che un'"inutile miseria": e l'accento del poeta batte soprattutto su questa inutilità. Donde il "tedio", la grande malattia spirituale dei romantici, di cui L. è il cantore italiano più alto e l'interprete più acuto: la vanità del tutto è per lui implicita nelle aspettative di felicità. Intorno a tali temi, impostano una interrogazione radicale le Operette morali, venti delle quali, il corpo dell'opera, furono tutte scritte dal gennaio al dicembre 1824 (ne scrisse un'altra nel 1825, e ancora due nel 1827, e due nel 1832). La conclusione logica di questa concezione della vita non può essere che una: la necessità del suicidio. E tuttavia, se Porfirio, nel dialogo che s'intitola a lui e a Plotino, energicamente afferma quella necessità, Plotino lo dissuade: non ci è lecito, è da barbari, privarci della consolazione che ci viene dall'affettuosa presenza delle persone che ci vogliono bene, togliendo a queste la consolazione della nostra presenza. È la felice contraddizione da cui nasce la poesia leopardiana. Le Operettesono per lo più dialoghi, in cui spesso L. fa sibilare lo staffile del suo sarcasmo contro gli uomini illusi e vili che si rifiutano di fissare gli occhi sull'orrido vero. A questi toni sarcastici lo scrittore si concede volentieri, riuscendo a governare con mano ferma stridori e dissonanze: nelle Operette è del resto più genericamente ammirevole la lucidità con cui è colta una realtà così totalmente negativa che sembrerebbe non potersi esprimere che con un grido o un disperato gesto. Questa fermezza e questa lucidità si riflettono nella sostenutezza dell'elaboratissimo stile, pur qua e là percorsa e in certo senso sottolineata da abbandoni sentimentali.
Le Operette nascono dunque nella più triste stagione leopardiana: nella quale il poeta è veramente solo, non soccorso dalla sua pietà, dal bisogno di consolare e d'essere consolato. Quando, nel 1828, uscirà da questo orribile stato, dirà che è rinata in lui finalmente la facoltà di piangere, che credeva gli fosse preclusa per sempre. E può quindi comporre poesie "col cuore d'una volta". Aveva nelRisorgimento (1828) celebrato questo rinascere in lui non della speranza, ma della vita sentimentale: seguono, dallo stesso 1828 al 1830, i canti leopardiani che si designano come "grandi idilli", e che segnano secondo molti l'apice della sua poesia: A Silvia; Le ricordanze; La quiete dopo la tempesta; Il sabato del villaggio; Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia, e probabilmente anche Il passero solitario. Il pessimismo cosmico assume il suo vero volto poetico: la pietà cosmica. Con il pianto, cioè con la pietà per gli altri e per sé stesso, non sono compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi, né l'esaltazione del proprio coraggio. Ma anche quel Pastore errante, che è vittima e non combattente e che non vede intorno a sé bersagli a cui mirare, bensì compagni di pena da compiangere, anche egli non si rassegna, non viene a patti con il destino; e perciò in sostanza combatte ancora: sconsolato titano sconfitto, a cui però resta l'amaro conforto di non essere stato e di non essere vile. In questo gruppo di mirabili poesie, sui toni agonistici e titanici, che pur non mancano, prevalgono quelli di raccolto solidale dolore; i quali a loro volta non erano mancati neppure nel L. eroico-alfieriano, e non mancheranno mai. La pietà di L. è attiva, vuole consolare; e consolare non si può chi per viltà chiude gli occhi al vero, accetta la realtà supinamente o per "fetido orgoglio". Pietà e consolazione non possono volgersi a chi soffre, e in primo luogo ai giovani, che per la loro ingenua fiducia nella vita, per la loro inesperienza non sono in grado di capire la legge universale dell'infelicità, e s'illudono di essere felici, e soprattutto di esserlo domani. Intorno al Canto notturno, gli altri grandi idilli si possono considerare tessuti tutti sul tema della speranza, una speranza vista non nel suo valore positivo, forza della vita, bensì considerata con la tenerezza di chi ne conosce la vanità: lo sbocciare e il fruttificare della speranza in Silvia, in Nerina, in sé stesso giovane, la morte e la vita stessa che la tradiscono, in A Silvia e nelle Ricordanze; l'aspettativa d'una gioia che non verrà, nelle appena accennate figure del Sabato; il risorgere dell'alacre gioia, dell'attaccamento alla vita dopo la tempesta, in quelle altre umili figure che affollano nitide la Quiete. Se la speranza è per L. giovinezza, giovinezza è per lui, sempre, compagnia: la gioia di ciascuno si riflette e ha senso nella gioia corale del borgo: il poeta del Passero solitario si rammarica appunto di non saper partecipare, pur giovane, a questo coro; dunque di non sapere essere giovane.
Dopo il 1830, si ha un'altra pausa nell'attività poetica di L., colmata nel 1832 dalle due ultime Operette. Poi, l'estrema illusione, l'estremo inganno: l'amore per F. Targioni Tozzetti, da vicino e da lontano, che come abbiamo detto deve essere collocato probabilmente negli anni 1833-35. Nascono cinque altre poesie, costituenti un ciclo, detto "di Aspasia". Dall'estasi d'un dolce Pensiero dominante, che rafforza l'intransigenza morale, lo sdegno per ogni umana viltà; dall'esaltazione dell'amore come del piacere maggiore che si trova nel mare dell'essere, fratello in ciò solo della morte (Amore e morte; Consalvo, che è la meno intensa drammatizzazione della precedente poesia), si passa, quando la grande illusione sarà caduta, ai secchi, terribili versi di A se stesso, lirica epigrafe mortuaria, e poi alla rappresentazione, più pacata ma carica di amarezza, delle circostanze dell'inganno (Aspasia). Si alternano in questo ciclo i toni eroici della speranza impossibile, con le invettive e i sarcasmi della disperazione, che sembra quasi suggerire i modi rinnovati di una espressione in cui ormai coincidono intensità e rigore. Gli ultimi anni napoletani sono caratterizzati, come sempre nei periodi leopardiani di più nera depressione, da scritti satirici (la Palinodia diretta a G. Capponi; lo scherno dei tentativi risorgimentali nei Paralipomeni alla Batracomiomachia, della fede religiosa nei Nuovi credenti). Ma insieme c'è un lento risalire dalla china, come mostrano, non tanto le canzoni Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, quanto la già citata La ginestra, e soprattutto Il tramonto della luna, nel quale canto vi sono gruppi di versi degni della proverbiale eloquente felicità dei grandi idilli. Postumi furono pubblicati, con le cose minori, il ricco Epistolario (a cura di P. Viani, 1849; a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, 7 voll., 1934-41) e lo Zibaldone di pensieri: 4526 pagine nel manoscritto, nelle quali L. dal 1817 al 1832 andò via via segnando, con maggiore o minore frequenza, quanto le sue letture e la sua meditazione gli andavano suggerendo sui più svariati argomenti (pubbl. col tit. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, a cura di una commissione di studiosi presieduta da G. Carducci, 7 voll., 1898-1900; la più recente ed. critica, col tit. Zibaldone di pensieri, è a cura di G. Pacella, 3 voll., 1992); da esso per la maggior parte L. stesso trasse e rielaborò i centoundiciPensieri, pubblicati postumi (in Opere di G. L., a cura di A. Ranieri, 2 voll., 1845). DeiCanti si ebbero due diverse edizioni in vita di L.: presso Piatti (Firenze 1831) e presso Starita (Napoli 1835); più complessa la storia delle Operette morali, la cui 1ª ed. in volume apparve a Milano nel 1827 e la 3ª, incompleta, a Napoli nel 1835. Le prime edd. critiche si debbono a F. Moroncini: Canti (2 voll., 1927); Operette morali(2 voll., 1928); Opere minori approvate (2 voll., 1931). Oltre alle edd. complessive (Tutte le opere di G. L., a cura di F. Flora, 5 voll., 1937-49; Tutte le Opere, a cura di W. Binni e E. Ghidetti, 2 voll., 1969), sono disponibili varie sillogi e singole edd., con ottimi commenti, apparati, riproduzione degli autografi. È stata avviata la pubblicazione degli scritti filologici e sono state approntate le concordanze dell'intera opera poetica.
Centro nazionale di studi leopardiani. - Fu fondato a Recanati nel 1937 dal conteEttore Leopardi; ha avuto come direttori M. Porena, E. Leopardi, R. Vuoli, U. Bosco, F. Foschi. Possiede una biblioteca specializzata di circa 7000 titoli e le fotografie di tutti gli autografi leopardiani esistenti nelle biblioteche di Firenze e di Napoli, di gran parte di quelli custoditi nell'attiguo palazzo Leopardi, e varî altri. Promuove convegni internazionali (L. e il Settecento, 1962; L. e l'Ottocento, 1967; L. e il Novecento, 1972;L. e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, 1976; L. e il mondo antico, 1980; Il pensiero storico e politico di G. L., 1984; Le città di G. L., 1987; Lingua e stile di G. L., 1991); cura una Bibliografia analitica (il volume che la aggiorna al 1980 è uscito a Firenze nel 1986); una collana di Documenti e studi; una collana di Scritti inediti o rari del Leopardi.
CARLO LUCARELLI
Trato da www.treccani.it
Lucarelli, Carlo. − Scrittore italiano (n. Parma 1960). Autore di gialli e di noir, realizza nei suoi romanzi una felice commistione di generi, riservando una particolare attenzione alla ricostruzione storica e agli aspetti socioculturali. Ha pubblicato una trilogia poliziesca, ambientata in epoca fascista (Carta bianca ,1990; L’estate torbida, 1991; Via delle Oche, 1996) e varie serie narrative (Falange armata, 1993; Il giorno del lupo, 1994; Lupo mannaro, 1994; Almost blue, 1997; Un giorno dopo l'altro, 2000). Tra le altre opere: Indagine non autorizzata (1993) e Guernica (1996), sullo sfondo della guerra civile spagnola. Nel 2008 ha pubblicato il romanzo storico L'ottava vibrazione, sull'esperienza coloniale italiana in Eritrea, e Storie di bande criminali, di mafie e di persone oneste, cui nel 2010 hanno fatto seguito il saggio Il genio criminale. Storie di spie, ladri e truffatori e Acqua in bocca, noir a quattro mani nato dalla felice collaborazione con A. Camilleri. Tra le sue pubblicazioni successive: Giudici (con A. Camilleri e G. De Cataldo, 2011), una storia d'Italia in tre racconti esemplari sul difficile esercizio della giustizia; Sex crimes (con M. Picozzi, 2011), in cui vengono approfonditi alcuni recenti casi di cronaca nera; il romanzo Il sogno di volare (2013), thriller ambientato in una Bologna minacciata da un serial killer; il racconto A girl like you pubblicato nella raccolta Giochi criminali (con M. de Giovanni, G. De Cataldo e D. De Silva, 2014); il romanzo Albergo Italia (2014), giallo storico ambientato nel periodo del colonialismo italiano. Giornalista, autore di sceneggiature per fumetti e per la televisione, L. ha anche ideato e condotto le numerose serie del programma televisivo Blu notte-Misteri italiani, in cui si analizzano crimini insoluti ed episodi controversi della storia italiana. Dal 2014 al 2015 ha condotto su Sky Arte il programma Muse Inquietanti, sui misteri legati alla vita di alcuni dei grandi protagonisti dell'arte, e dal 2014 conduce il programma La tredicesima ora su RaiTre in prima serata. Nel 2011 ha esordito alla regia cinematografica dirigendo L'isola dell'angelo caduto tratto da un suo romanzo, presentato al Festival internazionale del film di Roma del 2012.
ALESSANDRO MANZONI
Tratto da www.treccani.it
Manzóni, Alessandro. - Scrittore italiano (Milano 7 marzo 1785 - ivi 22 maggio 1873). Autore tra i massimi della letteratura, con I promessi sposi realizzò, anche per l'uso di una lingua nazionale, un modello fondamentale per la successiva letteratura, che costituì inoltre l'esito supremo della parabola iniziale del romanzo inItalia .
VITA E OPERE
Nato dall'infelice matrimonio di Giulia Beccaria, la figlia di Cesare, con un gentiluomo di lei molto più anziano, il conte Pietro M. (o, come voleva una diffusa diceria, dalla relazione adulterina della madre con il minore e meno noto dei fratelli Verri, Giovanni), per il disaccordo dei coniugi, che finirono con il separarsi, e il disinteresse della madre, fu educato nel collegio dei somaschi, a Merate e a Lugano, e in quello dei barnabiti al Longone di Milano: educazione ed educatori che egli più tardi giudicò severamente. Lo stesso nonno materno, verso il quale dovevano naturalmente volgersi l'ammirato orgoglio e l'emulazione dell'adolescente, gli offriva un modello di grande cultura, di impegno civile e di rigore intellettuale, ma non di austerità e di forza morale; né certo migliore era l'esempio che poteva venirgli dall'ambiente aristocratico. L'energico imperativo morale che informa anche le sue prime precoci prove poetiche, è il segno quindi di una tendenza costitutiva della personalità manzoniana, oltre che dell'influsso su di essa esercitato dalla migliore cultura del tempo, che in letteratura inclinava alla magniloquenza dell'epica imperiale e alla satira dei costumi, ma recava traccia della recente disillusione di cui erano ambasciatori gli esuli napoletani (con V. Cuoco e F. Lomonaco M. fu in relazione).
La produzione poetica giovanile di M., nella quale spiccano il poema Il trionfo della libertà (1801), composto per la pace di Lunéville e la ricostituzione della Repubblica Cisalpina, l'idillio Adda (1803), i quattro Sermoni (1802-04), risente della lezione di grande decoro formale e appassionato impegno politico e civile di G. Parini e di V. Monti, da lui conosciuto personalmente, nonché delle letture di Virgilio, di Orazio e di Dante; e si situa sullo sfondo di un razionalismo di tempra ancora settecentesca e di un generico deismo. Ma nel 1805, allorché M. raggiunse la madre a Parigi, in occasione della morte di C. Imbonati, con il quale Giulia aveva a lungo convissuto, nella vita dello scrittore si verificò un fatto importante, che fu celebrato dal carme In morte di C. Imbonati (1806). M. pervenne insieme a una specie di scoperta dell'amor filiale e a una più matura definizione dei suoi propositi. Il "nuovo intatto sentier" che il poeta aveva già deliberato di battere viene individuato nella centralità di una severità morale che non si contenta della denuncia di un ceto o di un costume, ma investe la sfera mondana nel suo insieme, a prescindere dai regimi politici e dagli orientamenti ideali dominanti, e il suo porre "sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo"; e nell'assunzione, ben oltre ogni mero atteggiamento letterario, delle responsabilità comportate in termini di condotta personale e impegno intellettuale da questa presa di posizione. Dalla madre M. non si sarebbe mai più separato, sì che Giulia costituì poi, finché visse, il centro della sua vita familiare.
La dimora a Parigi (1805-10) permise a M. di frequentare attivamente gli ambienti intellettuali che costituivano il crogiolo della più avanzata ricerca filosofica e letteraria dell'Europa di allora. Specie alla "Maisonnette" di Meulan, presso la vedova del Condorcet, che conviveva con C. Fauriel, poté assistere da vicino alla più importante delle trasformazioni in atto, a quella riflessione del razionalismo illuminista sui proprî risvolti materiali e psicologici alla quale legarono il loro nome i cosiddetti idéologues (oltre al Fauriel, con il quale M. strinse allora una appassionata duratura amicizia, P. Cabanis e A. Destutt de Tracy). Così, quando, all'indomani della pubblicazione (1809) del suo poemetto neoclassico Urania, egli scrisse che non avrebbe più fatto versi simili, dei quali era assai malcontento "soprattutto per la loro assoluta mancanza d'interesse", manifestava probabilmente una nuova sensibilità per uno almeno dei fondamenti della poetica romantica, secondo il quale la poesia non avrebbe dovuto essere destinata a una élite di raffinati, ma suo compito sarebbe stato piuttosto quello di "interessare" i lettori, facendosi interprete delle loro idee e sentimenti e solo in questo modo assecondando la propria vocazione universale. Contemporanea a questa prima attenzione alle posizioni romantiche è la cosiddetta conversione al cattolicesimo, che il ritorno ai sacramenti suggellò nel 1810, poco dopo dunque la sconfessione diUrania. L'una e l'altra non sono anzi che aspetti d'un medesimo profondo rivolgimento intimo. Sui modi nei quali precisamente si attuò la conversione religiosa, siamo assai male informati, soprattutto per il geloso riserbo di M.: indubitabile, data anche la sua indole, che essa sia stata il risultato di lunghe, severe meditazioni, e che non si sia in nessun modo risolta nella conquista di un pacifico approdo, comportando al contrario una ulteriore accentuazione dell'inquietudine e del problematicismo dello scrittore; ma ignoriamo se ci sia stato un punto preciso di risoluzione della crisi, dai gravi riflessi nevrotici della quale peraltro M. non si sarebbe mai del tutto liberato. Rimane dubbio il racconto di alcuni amici, secondo cui una folgorazione di fede sarebbe avvenuta (aprile 1810) nella chiesa di S. Rocco a Parigi.
Più sicuro è l'influsso di Enrichetta Blondel, che M. aveva sposato giovanissima nel 1808, per la quale il problema religioso non era filosoficamente eludibile: calvinista, ella sentì imperioso il bisogno di essere istruita circa quella fede cattolica secondo la quale era stata battezzata la prima figlia, Giulia: ascoltò l'abate E. Degola, si convinse, abiurò. L'urgenza di quel problema si impose così in casa M.: Alessandro e la madre non tardarono a ritornare a loro volta al cattolicesimo attivo, assistiti poi a lungo dal canonico L. Tosi. Tale ritorno ebbe senz'altro coloriture giansenistiche, vista la tendenza dello scrittore, che pure sarebbe rimasto sempre nella più stretta ortodossia, a un'interpretazione più severa della religione e soprattutto della morale cattolica. La conversione era d'altronde per lui una necessità logica e sentimentale. Negata la validità perenne e certa della ragione, la vita umana e la storia si palesavano romanticamente, alla ipertesa sensibilità dello scrittore, come un doloroso, miserabile disordine, inspiegabilmente vano. Mentre gli veniva a mancare la base sicura dell'istanza morale, a M. si imponeva la necessità di trasferire nella propria esperienza intima e di testimoniare con i proprî comportamenti l'interpretazione eroica della vita e il confronto quotidiano con la storia di cui quel severo moralismo si nutriva. Con la stessa fede prima riposta nella felicità raggiungibile per mezzo della ragione, in M. il senso romantico dell'incomprensibilità della vita, della sua oscura legge di dolore, si compone subito, senza annullarsi, nella prospettiva provvidenziale di un ordine superiore agli accadimenti e alla loro immediata percezione e di una felicità dopo la morte, sempre all'insegna di una lucida fermezza intellettuale e di un impegno assoluto della persona.
Nel 1810 M. tornò a Milano, donde non si mosse più se non per brevi viaggi (importante quello parigino del 1819, nel corso del quale entrò in contatto con V. Cousin e A. Thierry). Colà e nella villa di Brusuglio, che la madre aveva ereditato da Imbonati, visse ritirato in compagnia della moglie (morta nel 1833; M. sposò poi Teresa Borri vedova Stampa), della madre (morta nel 1841), dei molti figli e di pochi amici (tra i quali C. Porta, T. Grossi, A. Rosmini, che esercitò un notevole influsso sulla definitiva sistemazione delle sue idee estetiche e religiose, N. Tommaseo). Lavorava lentamente: quattro Inni sacri (La Risurrezione, 1812; Il Nome di Maria e Il Natale, 1813; La Passione, 1814-15), ai quali poi aggiunse La Pentecoste(cominciato nel 1817, ripreso nel 1819 e finito nel 1822); due tragedie (Il conte di Carmagnola, 1816-19; Adelchi, 1820-22; di una terza tragedia, Spartaco, non scrisse che uno schema); tre odi politiche (Il proclama di Rimini , 1815, e Marzo 1821, pubblicate solo nel 1848; Il cinque maggio, l'unica poesia che M. abbia scritto di getto, alla notizia della morte di Napoleone, 1821); le Osservazioni sulla morale cattolica (1ª parte, 1819; ripubblicata nel 1855 come opera compiuta; la 2ª parte restò frammentaria); infine il romanzo: la prima redazione, con il titolo Fermo e Lucia, fu scritta dal 1821 al 1823; la seconda redazione, profondamente modificata, con il titolo I promessi sposi, fu pubblicata dal 1825 al 1827 in un'edizione conosciuta come la "ventisettana". Nel frattempo, la sua fama europea si accresceva (testimonianza della grande stima di J. W. Goethe, ammiratore del M. tragediografo e del romanziere, fu la sua tempestiva traduzione in tedesco delCinque maggio) e in Italia gli veniva riconosciuto un ruolo di riferimento politico e letterario senza precedenti. Dopo di allora, M. sostanzialmente tacque: attese a lungo alla correzione, specie linguistica, del suo fortunatissimo romanzo, che, prima di apparire nel suo testo definitivo dal 1840 al 1842 (tale edizione fu detta la "quarantana") insieme con la Storia della colonna infame, fu sottoposto appunto alla proverbiale "risciacquatura in Arno"; e alla stesura di opere storiche (Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, al quale lavorò a più riprese negli ultimi anni, ma rimasto frammentario) e soprattutto linguistiche. Di poesia, non scrisse più, d'importante, che, nel 1835, Il Natale del 1833, cioè il Natale in cui era morta Enrichetta e, forse nel 1847, un nuovo inno,L'Ognissanti: incompiuti l'uno e l'altro componimento. M. morì quasi novantenne, nel 1873, per i postumi di una caduta all'uscita dalla chiesa. G. Verdi compose in suo onore una Messa da requiem, eseguita a un anno dalla sua scomparsa.
M. non partecipò mai direttamente alle polemiche letterarie e alle lotte politiche del suo tempo, pur prendendo posizione con fermezza nell'uno e nell'altro campo. In quello politico, il suo pensiero cattolico-liberale e il suo ideale monarchico e unitario restarono ben saldi per tutta la lunga vita, da quando nel 1814 sottoscrisse la petizione del senato del Regno italico perché all'Italia fosse riconosciuta l'indipendenza, e l'illusione del momento cantò in Aprile 1814, e l'anno dopo plaudì nel Proclama di Rimini al tentativo murattiano di unificazione; sino a quando, senatore, partecipò nel 1861 alla seduta in cui fu proclamato il Regno d'Italia. Nel 1864 il suo ossequio alla Chiesa non gli impedì di votare il trasferimento della capitale a Roma; ancora nell'ultimo anno di vita, nel 1873, riprese alcune pagine delSaggio comparativo e ne fece un'operetta nuova, rimasta anch'essa incompiuta, intitolata Dell'indipendenza dell'Italia. Ma tutta l'opera sua è retta da quel pensiero e ispirata da quel sentimento. Assidua e in coerente svolgimento (attestato dai cosiddetti Materiali estetici) fu altresì la sua meditazione intorno alle questioni letterarie aperte dalla rivoluzione romantica. I novatori del gruppo milanese lo considerarono presto il loro capo, anche se egli non prese parte alla rumorosa lotta che si accese a partire dal 1816. Inedita restò per allora un'ode scherzosa, del 1818,L'ira di Apollo; ma la stringata prefazione al Carmagnola (1820) e subito dopo la risposta a V. Chauvet (Lettre à M. Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, finita nel luglio 1820, pubbl. nel 1823), che vanno ben oltre il problema delle unità pseudo-aristoteliche nel teatro, la lettera al marchese C. d'Azeglio Sul Romanticismo (1823, ma pubbl., e senza il consenso dell'autore, solo nel 1846), formulano con estrema nettezza e rigore logico il pensiero manzoniano in questo momento. Respinte, semplicemente come non fondate sul ragionamento, le regole classicistiche e ogni astrattezza teorica che non rispettasse la natura molteplice e complessa del reale e della stessa esperienza estetica, M., anche se non nasconde la sua incertezza circa la definizione del concetto corrispondente, pone il vero come sorgente e oggetto della ricerca letteraria, restituendo quindi una più sostanziale unità all'opera d'arte, che troverà poi una sintetica espressione nella formula "l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo". Il poeta delle due tragedie e dei Promessi sposi si riserva il compito di collaborare con lo storiografo, restaurando con la sua fantasia poetica quanto rimane fuori della storia, cioè i riflessi che i grandi avvenimenti e le generali condizioni politiche e sociali hanno avuto sugli individui, sulle anonime folle, che, senza costituire essi stessi storia, possono essere recuperati dalla peculiare verità della letteratura. M. si preparò a tali opere con attentissimi studî, testimoniati, oltre che dalle Notizie storiche premesse alle due tragedie, dall'ampio Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, dai capitoli di storia generale inseriti nei Promessi sposi, e dalla Storia della colonna infame. Già all'indomani della prima edizione del romanzo, M., per approfondire il concetto di "vero", mise mano al suo discorso Del Romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d'invenzione, che finì e pubblicò solo nel 1845, e tornò sull'argomento, con il conforto del Rosmini, nel dialogo Dell'invenzione(1850). In questi scritti M. giunge a una più netta distinzione fra l'attività dello storico e quella del poeta, negando in definitiva la legittimità dell'invenzione letteraria anche nell'accezione ridotta da lui stesso sperimentata.
L'attività letteraria di M. anteriore alla duplice conversione, lungamente sottovalutata dalla critica, pur conservando il suo carattere giovanile e preparatorio rispetto alla maggiore produzione successiva, contiene in sé elementi di grande interesse, dal dato originario di una personalità inquieta e complessa alla precoce grande padronanza tecnica del versificatore, alla sicurezza dei progetti e già quasi alla predestinazione dell'incontro tra la sete di assolutezza, per esempio attestata dal pindarismo di Urania, e l'energia stilistica dell'imitatore di Dante e di Parini e gli sbocchi istituzionali offerti dal cattolicesimo militante e dal romanticismo. Discende così naturalmente dagli sciolti In morte di C. Imbonati la volontaria mortificazione cui M. sottopone, prima negli Inni sacri e poi nelle tragedie, la propria individualità e gli ideali letterarî a essa connessi, l'una e gli altri sacrificati a una missione di verità che è sì innanzitutto riconoscimento della vanità di ogni sforzo di salvezza individuale e recupero della propria identità di fedele, ma risponde anche all'intuita necessità di un compito sovrumano per l'artista moderno e si concilia comunque con la raffinatissima institutio retorica che nello scrittore avrà sempre il compito di esorcizzare la complessità del reale e la tragedia del vivere, conferendo a ognuna delle sue pagine lo statuto privilegiato di ciò che non è il frutto di un ragionamento individuale, ma appena l'anticipazione sapiente dell'"assenso" collettivo.
Nel quindicennio di maggior fervore creativo (1812-27), M. è preso dall'urgenza di dar voce poetica alle sue nuove credenze religiose. Rievoca quindi negli Inni sacri i grandi eventi del passaggio terreno di Gesù, la loro eterna contemporaneità attraverso i riti della Chiesa, o esalta l'aiuto che agli umili è dato dall'umile e regale Maria, escogitando un linguaggio poetico che si ispira direttamente a quello della Bibbia per restituire alla liturgia freschezza e entusiasmo e dalla poesia profana del Settecento e dal melodramma rileva ritmi fortemente cadenzati e predisposti all'esecuzione corale. Prima di affidare al romanzo l'eredità pariniana e montiana di uno stile tanto più eletto quanto più efficacemente si confronta con la realtà, negliInni sacri e nella poesia civile di Marzo 1821 e del Cinque maggio, come nei cori "lirici" delle tragedie, M. realizza una poesia in cui il tema è dato, più che dalle Scritture, dalla preveggenza del sentimento religioso o patriottico e viene svolto da un poeta per una volta capace di condividere lo stesso fiducioso abbandono al canto e alle parole del lettore più semplice. Per un altro verso, le tragedie ruotano intorno al dilemma formulato da Adelchi morente: nel mondo "non resta che far torto o patirlo". Il senato veneto che condanna l'innocente Carmagnola, Carlo che ripudia l'innamorata Ermengarda, Desiderio che prende le armi contro il diritto del pontefice, gli Italiani che combattono contro altri Italiani, gli stranieri invasori dell'Italia: tutti fanno il torto, ma trascinati da una forza che supera la loro stessa volontà, dalla stessa legge ferrea e incomprensibile della vita e della storia. Sicché è "provvida" la sventura che pone tra gli oppressi Ermengarda, discesa dalla progenie degli oppressori; e che con la sconfitta, privandolo del regno, pone Desiderio nell'impossibilità d'essere strumento del male. Lo sforzo dei personaggi prima ancora che del poeta è scorgere nel tumulto della storia, nella vanità d'ogni gloria e d'ogni azione terrena l'intervento onnipresente di Dio, i cui fini, se sono imperscrutabili, non sono perciò meno giusti e sicuri (Cinque maggio); o invocare per tutti, contro ogni tempesta, l'ausilio dello Spirito Santo, che si attua attraverso il magistero soprannaturale della Chiesa (Pentecoste).
È questo il momento del più esplicito impegno romantico manzoniano, che non senza ragione trova la sua più netta espressione nella tragedia e nella forza dei contrasti che informa la prima redazione del romanzo. Nelle ferme pagine della seconda redazione del romanzo, subentra un'ulteriore maturazione della poetica manzoniana, che già non aveva mai mostrato indulgenza verso le posizioni estreme del romanticismo. Nei Promessi sposi, la stessa pietà per gli oppressi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori; e se mai domina la dolente rappresentazione della violenza cui soggiace Gertrude, monacata a forza, o quella della miserabile fine di Don Rodrigo. Al delitto anche gli oppressori sono trascinati: quello di Gertrude nasce dalla violenza familiare, che a sua volta dipende dalle convenzioni sociali. La persecuzione di Don Rodrigo è effetto non di passione o di vizio, ma della necessità cui egli non sa sottrarsi di vincere il "punto d'onore", di conservare cioè il prestigio della sua casata, che appunto per questo è tutta solidale con lui. Mentre però nelle tragedie gli oppressi piegavano sotto il male, rifugiandosi solo nel pensiero e nella speranza di Dio, neiPromessi sposi lottano contro di esso. Non Renzo, la cui ribellione è disordinata e inefficiente perché contenuta tutta nei limiti dell'azione terrena, ma fra Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo, che concretamente e coraggiosamente agiscono in nome della Provvidenza di cui sanno d'essere strumenti, sono i rappresentanti dell'umanità ideale per M.; e l'Innominato, allorché egli piega al servizio del bene la sua energia che la conversione non ha domato; e Lucia, con la forza disarmata ma invincibile della sua innocenza e della sua fede. Se poi l'inutile fede religiosa di Don Abbondio, la viltà che lo porta a diventare strumento dell'ingiustizia, rappresentano il contro-ideale di M., lo scrittore però sa che "il coraggio uno non se lo può dare"; che è solo di pochi purtroppo quella terrena fortezza senza odio che egli, giunto al culmine della sua arte, ci propone come guida e meta della nostra vita. M. riconosce nel romanzo il terreno di uno scontro cruciale tra le ragioni della letteratura, o in ultima istanza della ragione senz'altro, e la casualità della verifica storica, salvo poi rassegnarsi a questa apparente casualità come alla prova da superare cristianamente grazie alla fede. Il suo rifiuto e la sua aperta polemica contro il romanzesco, evocato con tutte le cautele e puntualmente esorcizzato, interpretano bene le resistenze di fondo, innanzitutto linguistiche, di tutta la nostra tradizione al "meraviglioso" moderno e alla sua vocazione popolare; e proietteranno un'ombra tenace su tutti i romanzi posteriori, contribuendo a rafforzare preclusioni e riserve e incoraggiando con il proprio esempio gli sbocchi, atipici in ambito europeo ma caratteristici della nostra tradizione, verso il romanzo-poema e il romanziere-storiografo.
Il Manzoni e la questione della lingua
M., già da giovanissimo, aveva romanticamente lamentato la frattura esistente in Italia tra lingua parlata e lingua letteraria. Non solo per le sue prime poesie, ma anche per gli Inni sacri e le tragedie, si era sostanzialmente valso della lingua poetica offertagli dalla tradizione; ma scrivendo la prosa del romanzo, nel quale per la prima volta in Italia il realismo romantico investe i dominî dell'alta letteratura, gli si pone concretamente il problema della lingua. Partì dall'idea che una lingua letteraria "comune" a tutta l'Italia potesse essere quella costituita dall'incontro tra i varî dialetti italiani, in particolare tra il milanese e il toscano; ma poi piegò sempre più verso la concezione che la lingua comune dovesse essere basata sull'uso, e quest'uso non potesse essere che quello d'una determinata regione, cioè della Toscana; considerando poi che anche nell'interno della Toscana c'erano discrepanze tra l'una e l'altra parlata, finì col sostenere la necessità di adottare il fiorentino parlato (ma quello, per così dire, epurato, delle persone colte) come lingua comune. A questa tesi fiorentina giunse esplicitamente e pubblicamente in una lettera a G. Carena del 1847; quando già, almeno dall'indomani della pubblicazione della prima edizione del suo romanzo, egli si era volto ad approfondire il problema sia correggendo in senso fiorentino i Promessi sposi per l'edizione definitiva, sia lavorando, per tutto il resto della sua vita, a un trattato sulla lingua, che non condusse mai a termine, e del quale ci restano numerosi abbozzi e frammenti (uno di essi fu pubbl. nel 1923 col titolo Sentir messa).
E. Broglio, seguace di M. nelle questioni della lingua, diventato ministro della Pubblica Istruzione, nominò nel 1868 una commissione, presieduta da M., che suggerisse provvedimenti atti "a rendere più universale a tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia". M. scrisse subito una relazioneDell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), seguita l'anno dopo da un'Appendice, nella quale egli propugnava lucidamente le sue idee e respingeva le obiezioni. Come base della desiderata unità linguistica, la quale era concepita da M. come un essenziale coronamento dell'unità politica, si proponeva la pubblicazione di un vocabolario dell'uso di Firenze, che apparve poi, dal 1870 al 1897, opera dello stesso Broglio e di G. B. Giorgini. La relazione manzoniana e l'inizio della pubblicazione del Novo vocabolario accesero vaste polemiche, pro e contro; autorevolissimo tra gli oppositori di M., in nome di una concezione storica della lingua, per la quale la desiderata unificazione linguistica non poteva non essere che il frutto di lenta maturazione, d'una effettiva unificazione nazionale, fu G. I. Ascoli, nel proemio del suo Archivio glottologico (1873). Ma fu lo stesso Ascoli a dire che la mano di M., che pareva "non aver nervi", era riuscita "a estirpare dalle lettere italiane... l'antichissimo cancro della retorica". Ed è appunto questo l'aspetto storicamente positivo della teoria e soprattutto dell'esempio manzoniano: anche se in alcuni dei suoi seguaci la sobrietà, il nitore, l'aggiustatezza verbale senza fronzoli del maestro poterono diventare lezio. Donde la reazione di tanti, nel secondo Ottocento, che desiderarono e attuarono una prosa più sostenuta e quadrata, più "classica": tra i quali in primo luogo G. Carducci.
Tra le edizioni contemporanee, fondamentale è l'ed. critica, avviata da M. Barbi e diretta da A. Chiari e F. Ghisalberti, di Tutte le opere di Alessandro M., di cui sono apparsi i voll. I-V (1954-91), comprendenti poesie e tragedie, il romanzo nelle sue tre stesure, le opere morali e filosofiche, i saggi storici e politici, gli scritti linguistici e letterarî, e VII (3 tomi, 1970), comprendente le lettere. Di queste s'è avuta un'ed. con integrazioni: Tutte le lettere, a cura di C. Arieti e D. Isella (3 voll., 1986). Per ilCarteggio (ma solo fino al 1831) si deve ricorrere all'ed. fornita da G. Sforza e G. Gallavresi (2 voll., 1912-21). Sono disponibili le Concordanze degli Inni sacri, a cura dell'Accademia della Crusca (1967), e le Concordanze dei Promessi sposi, a cura di G. De Rienzo, E. Del Boca, S. Orlando (5 voll., 1985).
ALBERTO MORAVIA
Moràvia, Alberto. (propr. Alberto Pincherle Moravia). - Pseud. di Alberto Pincherle, scrittore (Roma 1907 - ivi 1990). Esordì con il realismo provocatorio de Gli indifferenti (1929), romanzo capitale nella letteratura italiana del Novecento che illustra, attraverso la storia di una famiglia, la decadenza morale della classe borghese sotto il fascismo. Il rapporto tra purezza e corruzione e l'osservazione delle trasformazioni sociali tornano nei suoi romanzi migliori: Agostino (1944), L'amore coniugale (1949), La ciociara (1957), La noia (1960), L'uomo che guarda (1985).
VITA E ATTIVITÀ
Collaboratore del Corriere della sera (dal 1948) e di varî periodici (tra cui L'Espresso, dove ha redatto la rubrica cinematografica), è stato tra i fondatori della rivista Nuovi argomenti (1953), che ha diretto con altri fino alla morte. È stato deputato al Parlamento europeo (1984-89). Pubblicò giovanissimo il suo primo romanzo, Gli indifferenti (1929), tempestivamente segnalato dalla critica, osteggiato dal regime fascista e considerato poi un libro capitale nella letteratura italiana, alla quale riuscì a imprimere una svolta in senso realista, in anticipo sugli esiti più avanzati del decennio successivo. Si trattava tuttavia di un realismo singolare, della provocatoria oggettività con cui un osservatore distaccato rappresentava la degenerazione di un'umanità incapace di slanci ideali, ma inevitabilmente delusa dal sesso e dal denaro che ne sono i surrogati, e che per giunta risultano reciprocamente convertibili. Basandosi su questo nucleo tematico, che si sarebbe riproposto pressoché inalterato in un'operosità letteraria durata oltre sessant'anni, e applicando al dramma della purezza tradita l'impietosa diagnosi di una patologia morale ogni volta diversa, lo scrittore ha rappresentato la trasformazione della società italiana dal conformismo fascista (Il conformista, 1951) all'alienazione neocapitalista (La noia, 1960), con tutta una serie di libri memorabili. C'è stata così una prima fase in cui purezza e corruzione si sono fronteggiate forse alludendo davvero al torpore intellettuale e morale introdotto dal fascismo (Le ambizioni sbagliate, 1935, e i racconti di La bella vita, 1935; L'imbroglio, 1937; I sogni del pigro, 1940), come risulta dall'esplicita secchezza dell'apologo satirico La mascherata (1941). E c'è stata soprattutto la migliore stagione di M., in cui, con una sobrietà di scrittura addirittura proverbiale e una affabulazione robusta e ingegnosa, il continuo attentato all'innocenza era registrato su personaggi socialmente deboli (Agostino, 1944; La Romana, 1947; La disubbidienza, 1948; L'amore coniugale, 1949; Il disprezzo, 1954; La ciociara, 1957), estranei alla logica del compromesso o del cinismo. L'effiacia della rappresentazione era poi massima quando, anziché sulla condizione individuale, M. puntava senz'altro sulla deprivazione morale e culturale di un'intera società (Racconti romani, 1954;Nuovi racconti romani, 1959). In seguito, erano le velleità intellettuali della borghesia neocapitalista e le suggestioni inevitabili del marxismo e della psicanalisi che fornivano allo scrittore il pretesto per mettere in scena la crisi d'identità alla quale fin dall'inizio aveva alluso l'innocenza perseguitata e senza speranze di riscatto (i romanzi L'attenzione, 1965; Io e lui, 1971; La vita interiore, 1978; 1934, 1982; L'uomo che guarda, 1985; i racconti di L'automa, 1962; Una cosa è una cosa, 1967; Il paradiso, 1970; Un'altra vita, 1973; Boh, 1976; La cosa, 1983). I protagonisti di queste opere, in cui spesso il magistero del narratore ha cessato di perseguire la varietà dei casi per illustrare virtuosisticamente penetranti intuizioni, sono ormai consapevoli di essere i persecutori di sé stessi, ma sanno anche che non troverebbero nessun interesse in un vita priva delle complicazioni intellettuali che trasformano gli ideali in teoremi da dimostrare e l'amore in erotismo. La natura intimamente dialettica di questa ispirazione non poteva non essere tentata dal teatro (Beatrice Cenci, 1958; Il mondo è quello che è, 1966; Il dio Kurt, 1968, raccolti insieme ad altri testi in Teatro, 1976; L'angelo dell'informazione e altri scritti teatrali, 1986). Parallelamente, il suo costante bisogno di confrontarsi con i problemi contemporanei ha trovato naturale quanto felice esito nelle prose giornalistiche e saggistiche raccolte in volumi che hanno avuto un successo pari a quello dei romanzi (Un mese in URSS, 1958; Un'idea dell'India, 1962; L'uomo come fine e altri saggi, 1964; Al cinema, 1965; La rivoluzione culturale in Cina, 1968; A quale tribù appartieni?, 1972; Impegno controvoglia, 1980; Lettere dal Sahara , 1981; Inverno nucleare, 1986). Le opere di M. hanno avuto varie trasposizioni cinematografiche e sono state tradotte in molte lingue. Postumi sono usciti il romanzo La donna leopardo (1991), la raccolta di articoli Diario europeo (1992) e il volume di racconti Romildo (1994).
IPPOLITO NIEVO
Tratto da www.treccani.it
Nièvo, Ippolito . - Scrittore e patriota (n. Padova 1831 - m. 1861 per naufragio mentre tornava dalla Sicilia nel continente). N. visse intense esperienze intellettuali e militari con una forte volontà di presenza nella vita pubblica. I suoi molteplici scritti mostrano la ricerca di un modello positivo di comportamento morale e politico, e insieme un netto rifiuto del Romanticismo sentimentale. C'è in lui una esigenza di maturità virile, di vigore intellettuale, che egli realizzò partecipando come soldato al seguito di Garibaldi, alla guerra del '59 e all'impresa dei Mille. La sua opera più famosa, il romanzo Confessioni di un italiano, è un imponente affresco di un' epoca, una grandiosa saga del Risorgimento italiano, che attesta una caratteristica inconfondibile della poetica di N.: la varietà delle voci e degli spazi, degli elementi narrativi e linguistici, degli stili e delle intonazioni, che N. vi assume nello sforzo di riprodurre in tutta la gamma delle sue sfumature possibili la molteplicità inesauribile del reale. Esso rappresenta il ponte di passaggio tra il romanzo storico del primo Romanticismo e il romanzo realistico-veristico del secondo Ottocento.
VITA
Nacque da padre di nobile famiglia mantovana e madre proveniente dal patriziato veneziano. Nell'infanzia e nell'adolescenza visse e studiò tra il Friuli, il Veneto e la Lombardia. Si dedicò allo studio del diritto, compiuto dalla fine del 1850 all'univ. di Pavia e dal 1852 all'univ. di Padova. La sua ricchissima attività di giornalista e di scrittore, solcata sin dagl'inizi da forti venature satiriche e umoristiche, ebbe principio in quegli anni. Di ideali patriottici, partecipò ai moti insurrezionali di Mantova nel '48. Nel '57, colpito da un mandato di cattura della polizia austriaca, fuggì a Milano, dove lo richiamava la preparazione del decennio che sfociò nel '59 e l'amore per la cugina Bice Melzi d'Eril, amore che, in vivo contrasto con le sue idee sulla famiglia, tenne profondamente agitato il poeta, specie dal 1858 in poi, e si rifletté fortemente sulla sua operosità di scrittore, massimamente sulla più originale delle sue creazioni, la Pisana delle Confessioni. Dopo intensa attività patriottica iniziatasi già nel 1848, fu (1860-61) colonnello, vice-intendente, poi intendente, della spedizione dei Mille.
OPERE
Intensissima è stata l'attività di N. come scrittore e giornalista. Le poesie (Versi,1854-55; Lucciole, 1858; Amori garibaldini, 1860), le novelle, particolarmente Il Varmo (1856), due romanzi (Angelo di bontà, 1855; Il conte pecoraio, 1856), due tragedie (Spartaco, I Capuani, 1857) rappresentano i suoi primi tentativi e interessano soprattutto perché aiutano a comprendere la sua opera maggiore, Le confessioni di un italiano, lungo romanzo composto in 8 mesi nel 1858 (pubblicato solo nel 1867, col titolo di Confessioni di un ottuagenario). La narrazione si svolge in prima persona ed è divisa in ventitre ampi capitoli, ciascuno dei quali è preceduto da una sintetica rubrica. L'insieme costituisce l'autobiografia immaginaria dell'ottuagenario Carlino Altoviti, le cui vicende personali si intrecciano con gli eventi politici, dalla caduta della Repubblica di Venezia alla dominazione francese, alla Restaurazione, alle cospirazioni e alle battaglie del Risorgimento, fino al 1858. Quando N. vi si abbandona alla descrizione di caratteri visti attraverso «quel lume di fiaba che è il ricordo», o attinge alla sua diretta esperienza, si delineano felici consonanze dell'ambiente col protagonista, nascono figure indimenticabili (la Pisana, Clara, Giulio del Ponte), interni di mitica bellezza (la cucina di Fratta). Allorché, al contrario, gli eventi storici narrati (dalla caduta della Repubblica di Venezia al 1858) prendono il sopravvento sulle figure, la vastità della tela non è più dominata dall'autore, che indulge allo straordinario e allo scenografico. L'importanza storica del romanzo, tra i Promessi Sposi e i Malavoglia, sta appunto nel tentativo, anche se solo in parte riuscito, di fondere l'interesse storiografico con lo psicologico. Al suo realismo sfumato nella fiaba guardò con vivo interesse molta narrativa contemporanea.
ALFREDO ORIANI
Tratto da www.treccani.it
Oriani, Alfredo. - Scrittore e poeta italiano (Faenza 1852 - presso Casola Valsenio 1909). Autore di romanzi, opere di polemica politico-sociale e scritti d'arte e di storia, O. elaborò una concezione etica dello Stato e della storia, ispirata al nazionalismo. In tutta la sua opera, da Memorie inutili a Rivolta ideale, esiste continuità ideale: l'artista e il pensatore, il filosofo e il sociologo si fondono e si esprimono in indivisibile unità.
VITA E OPERE.
O. ebbe una fanciullezza vuota d'affetti. Studiò a Bologna nel collegio di San Luigi, condotto dai barnabiti, dove trascorse gli anni dell'adolescenza taciturno, altero, solo. Passato poi all'università di Roma e laureatosi nel 1872 in giurisprudenza, non esercitò l'avvocatura. Esordì giovanissimo a 21 anni col romanzo Memorie inutili, pubblicato (1876) sotto lo pseudonimo di Ottone di Bànzole, al quale tennero dietro, rapidamente scritti, altri romanzi: Al di là (1877), Monotonie (1878), Gramigne (1879), No (1881), opere non prive di un'aspra veemenza, ma nel complesso torbide, informi e caotiche, rappresentanti un mondo di passioni oscure che non riesce mai a decantarsi in racconto chiaro e armonioso. Dal 1883 la sua vena narrativa e polemica tende a effigiare il travaglio dell'umanità moderna, l'opera dei popoli e delle nazioni, lo sforzo dell'uomo che si dà una patria e una missione; e nascono, accanto a romanzi, opere di polemica politico-sociale, prose d'arte, scritti storici, nei quali peraltro fa quasi costantemente difetto una problematica storica sicura e serena: Quartetto (1883); Matrimonio e divorzio (1886), vigorosa difesa della famiglia, concepita come nucleo fondamentale della nazione; Fino a Dogali (1889), in cui sono prospettate le cause della duplice crisi dell'Italia risorta - crisi religiosa e crisi di sviluppo - con le pagine su don Giovanni Verità, che nitidamente e su nuove basi lumeggiano il problema dei rapporti tra fede cattolica e sentimento patriottico, e con la lirica rievocazione dei primi eroi d'Africa, che addita alla patria unificata le vie di Roma imperiale; La lotta politica in Italia (1892), dove vengono additate le ragioni storiche della formazione unitaria italiana; Il nemico (1894), tumulto di passioni crudeli e di ostentati cinismi, ma anche fatidico preannuncio del dissolvimento del mondo russo; Gelosia (1894); La disfatta (1896); Vortice (1899); Olocausto (1902), che esprimono l'essenza stessa della gretta vita di provincia, quell'impossibilità di viverci «grande» che fu il perenne tormento dell'O. Dal 1892 al 1902 trascorre per O. un decennio di formidabile attività che non valse a rallentare né dissensi familiari, né il dissesto finanziario in parte dovuto ai sacrifici fatti per pubblicare Lotta politica, né lo straziante dolore per l'ostinato silenzio che avvolgeva la sua opera. Meglio egli riuscì nelle ultime opere, dove la stanchezza di una polemica condotta con indiscriminato fervore dà luogo a pagine di più intima spiritualità, però troppo spesso compromesse da un velleitario «titanismo» spirituale: La rivolta ideale(1908); Punte secche (post., 1921); Sì (post., 1923). Scrisse anche per il teatro, componendo dieci fra tragedie e drammi. O. fu indicato da Mussolini fra gli ispiratori del fascismo, e in effetti egli espresse il fermento attivistico diffuso presso vari settori della società italiana al principio del secolo, individuando chiaramente la crisi di una certa borghesia di fine sec. 19º. Scrittore non privo di una personale sensibilità postromantica e di energia rappresentativa, riprese miti politici (il nazionalismo, l'imperialismo) già affermati in Europa, inserendoli in una cultura d'impronta hegeliana. Al Cardello, presso Casola Valsenio, che il governo fascista dichiarò monumento nazionale nel 1924 e volle degnamente restaurato, esiste un'importante raccolta bibliografica, che contiene la collezione dei manoscritti autografi di O., le sue opere nelle successive edizioni, i libri e gli opuscoli che lo riguardano, un'ampia raccolta di riviste e giornali che parlano di lui, e inoltre l'epistolario, oggi ancora inedito, dello scrittore.
EUGENIO MONTALE
Tratto da: www.trecani.it
Montale, Eugenio. - Poeta italiano (Genova 1896 - Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il "male di vivere" si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una 'poetica dell'oggetto': il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un'evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l'irripetibile singolarità dell'esperienza.
VITA E OPERE
Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l'ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un'intensa attività di traduttore, soprattutto dall'inglese (da ricordare il suo contributo all'antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d'azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione/">fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d'informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).
Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il "male di vivere" discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell'epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un'evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.
Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di "correlativo oggettivo" e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all'origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un'imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell'enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l'aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l'irripetibile singolarità dell'esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e "parlato" si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L'ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l'avvio daSatura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un'ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del '71 e del '72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest'ultima già anticipata nell'ed. critica complessiva, L'opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.
Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l'esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l'ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l'aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai "bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe" riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l'altro il "lancio" italiano di Svevo (sulla rivista L'esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell'epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un'ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).
PIER PAOLO PASOLINI
Tratto da: www.treccani.it
Pasolini, Pier Paolo. - Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 - Ostia, Roma , 1975). Dopo aver seguito nell'infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia , in Friuli , con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell'intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all'idroscalo di Ostia.
Fin dagli esordî in friulano, che comprendono Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954; poi ripreso con intenti diversi e notevole incremento di testi: La nuova gioventù, 1975), ben oltre la nozione ermetica di poesia pura, il giovane P. puntava alla scoperta di una lingua intatta, che fosse quasi un equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza (fonderà così nel 1945 l'Academiuta di lenga furlana). Il suo interesse per la poesia dialettale trovò espressione in due importanti antologie: Poesia dialettale del Novecento (in collab. con M. Dell'Arco, 1952) eCanzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955; poi, in versione ridotta:La poesia popolare italiana, 1960); mentre il suo talento di critico letterario, affascinato più dai modelli della critica stilistica (Auerbach, Spitzer, Contini) che dal sociologismo marxista d'ispirazione gramsciana, si esplicò in una serie di interventi sulla letteratura contemporanea, e soprattutto sulla poesia, che sarebbero confluiti in Passione e ideologia (1960). Gli anni Cinquanta furono gli anni della sua completa affermazione letteraria. La sua prima notevole raccolta di poesie in lingua, Le ceneri di Gramsci (1957), sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana. L'ansia profetica dell'Usignolo della chiesa cattolica (pubbl. nel 1958, ma composto prima del trasferimento a Roma) si sarebbe riproposta, dopo la parentesi decisiva delle Ceneri, nei termini mutati di un'ininterrotta controversia (La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971). P. fondava, intanto, insieme a F. Leonetti e R. Roversi, Officina, la rivista della polemica antinovecentesca; era anche diventato condirettore di Nuovi argomenti, rivista fondata nel 1953 da A. Moravia e A. Carocci. E aveva dovuto affrontare difficoltà molto più gravi dopo la pubblicazione dei suoi due romanzi d'ambientazione romana: Ragazzi di vita (1955), per il quale dovette subire un processo per oscenità, e Una vita violenta (1959), che era stato accolto freddamente tanto dalla critica marxista quanto dai giovani critici della neoavanguardia. Ma la vocazione di P., già insofferente dei limiti di un genere letterario, si era orientata verso altri mezzi d'espressione: il cinema (v. oltre), del quale si sarebbe poi occupato anche in veste di teorico, il teatro (Orgia, 1968; Affabulazione, 1969;Calderón, 1973) e il giornalismo (soprattutto, dal 1973, le collaborazioni al Corriere della sera, poi raccolte con altre in Scritti corsari, 1975). In ritardo rispetto alla data di composizione, erano intanto apparsi il romanzo Il sogno di una cosa (1962) e le prose narrative di Alì dagli occhi azzurri (1965), oltre a vari scritti minori. Postume, in ordine sparso, sono uscite raccolte di scritti giornalistici (Lettere luterane, 1976; Le belle bandiere, 1977; Il caos, 1979), di critica letteraria (Descrizioni di descrizioni,1979; Il portico della morte, 1988), opere narrative (La divina mimesis, 1975; Amado mio, 1982; Petrolio, 1992, romanzo incompiuto che riassume e porta a livello di quasi insostenibile incandescenza tutti i temi dello scrittore), nonché le raccolte complete dei suoi testi teatrali (Teatro, 1988) e poetici (Bestemmia. Tutte le poesie,1993). Diversi scritti appartenenti alla fervida stagione friulana del poeta sono stati raccolti dal cugino N. Naldini in Un paese di temporali e di primule (1993) e inRomàns (1994); per sua cura sono anche apparse le Lettere 1940-1954 (1986) e leLettere 1955-1975 (1988). Tutte le opere di P. sono state raccolte nell'edizione diretta da W. Siti (10 tomi, 1998-2003).
Nel cinema P. operò a partire dal 1954, come sceneggiatore (con M. Soldati, La donna del fiume; con F. Fellini, Le notti di Cabiria; con M. Bolognini, Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell'Antonio, La giornata balorda; e, fra i tanti, con B. Bertolucci, La commare secca, autore anche del soggetto). P. dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa (P. era stato allievo di R. Longhi a Bologna). Il linguaggio di P. approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l'armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l'avvio a quel "cinema di poesia" di cui P. doveva essere in Italia uno dei più convincenti teorici (Il cinema di poesia, 1965; Osservazioni sul piano sequenza, 1967; Empirismo eretico, 1972). Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967),Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl'impegni drammatici e linguistici dei film della "trilogia della vita" (o, come altri l'hanno definita, "dell'Eros"), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L'ultimo film, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria del libro omonimo di Sade. Non vanno dimenticati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all'italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d'inchiesta Comizi d'amore (1965), indagine sulla sessualità nell'Italia dei primi anni Sessanta, condotta da P. insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola della storia d'Italia, dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti, èUccellacci e uccellini (1966), ultima "legenda aurea" della civiltà italiana.
Pasolini e il Novecento
L'edizione delle Opere di Pasolini colloca la sua opera tra i classici del secondo Novecento. E a ragione, poiché solo Pasolini (come D'Annunzio e più di Pirandello) ha sperimentato tutti i generi della creazione del 20° secolo: romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia. Già questa semplice ragione di "generi" crea un singolare accostamento: D'Annunzio, Pirandello, Pasolini, un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica - strumento dell'argomentare, del persuadere, dell'insegnare, leva essenziale di ogni "passione e ideologia" - è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di "sordina". Sì che non pare ardito oggi dire che Pasolini è stato per l'ultimo Novecento il rovesciamento speculare di quello che fu D'Annunzio all'ouverture del 20° secolo: là fu la parola chiamata a colmare le lacune del tempo, parola di gloria (e di lusso vitale dell'io), qui la parola della negazione, dell'abiezione, dei margini prossimi al niente: "i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte" (Il dolore dei poeti, da Poesie marxiste, 1964-65). L'Italia repubblicana trova così oggi due emblemi nobili della propria identità: da una parte Calvino, la ragione e l'utopia, la trasparenza e la levità, l'Italia dell'Ariosto e di Galileo; dall'altra Pasolini, l'Italia di Jacopone e di Belli, di Gioacchino da Fiore e di Gadda: stracci e apocalissi. Una civiltà magmatica - il dialetto friulano e Dante, i tragici greci e gli Evangeli, il sottoproletariato e la Nuova Guinea - ma non più e soltanto latina: Pasolini sa partire da Alba pratalia, alba pratalia delle nostre origini e arrivare alla lugubre Nuova Preistoria che viviamo, alla profezia degli ultimi: "La Negritudine, dico, che sarà ragione". In certo modo - come lucidamente hanno osservato Calvino e Barthes per l'utopia di Fourier - il profetismo pasoliniano si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: "Stesura in 'cursus' di linguaggio 'gergale' corrente, dell'antefatto: Fiumicino , il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] - sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno" (Una disperata vitalità). Un Pasolini che incarna in sé, come scriverà, il destino di Cassandra: "Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte" (Nota per l'ambientazione dell'Orestiade in Africa). Una lettura della storia dell'Italia unita, tutta incentrata sulle identità popolari: il cristianesimo e il marxismo; il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai una vera alternativa, ma parve a Pasolini la continuazione del Potere, non la plenitudine della Verità: "Quelli di voi che possiedono un cuore / votato alla maledetta lucidità, / vadano nei laboratori, nelle scuole, / a ricordare che nulla in questi anni ha / mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, / forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. // […] Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società / che hanno portato l'Europa sulle rive del Po: // è giunta per ognuno di loro l'ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò" (Vittoria). Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l'utopia di un'eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisione dell'essenziale: l'Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche - sia non indebito il paragone - dei papi veneti del Concilio, papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia, fu l'orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini: "Ma nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo […] / la loro speranza nel non avere speranza" (La religione del mio tempo, 4). Quella vita che non ha nient'altro, per sostenerla, che il suo consumarla, sacro deserto della fame, della manna, ove si attraversa - come Mosè , come Edipo - il miraggio, "sospinti dalla violenza del suo assillo". Così Pasolini ci ha rinnovato la biblica coscienza del sacro: quella coscienza - di Frazer e Cumont, di Caillois e di Deonna, ma anche di Bresson e di Tarkovskij - che "ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata" (Medea).
CESARE PAVESE
Tratto da: www.treccani.it
Pavése, Cesare. - Scrittore italiano (Santo Stefano Belbo 1908 - Torino 1950). P. ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico, tra esistenza individuale e storia collettiva, attraverso una tormentosa analisi di sé stesso e dei rapporti con gli altri e una ininterrotta lotta per costruirsi come uomo e come scrittore.
VITA.
Nacque da famiglia piccolo-borghese originaria delle Langhe. Visse per lo più a Torino, dove si laureò in lettere con una tesi su W. Whitman; discepolo di Augusto Monti, amico di L. Ginzburg e di altri intellettuali antifascisti, fin dagli anni Venti lesse numerosi autori americani e iniziò a tradurre scrittori inglesi e americani. Negli anni successivi svolse un intenso lavoro in questo campo traducendo, tra l'altro, opere di Defoe, Dickens, Mlville, Joyce. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà venne arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro; tornato a Torino, fu tra i principali collaboratori della casa editrice Einaudi. Ma la sua vita era dominata da un profondo senso di solitudine e vuoto, più forte dopo la fine di un'esperienza d'amore vissuta negli ultimi anni di università. A partire dal 1940 una nuova, difficile amicizia fu quella conF. Pivano. Nel 1942 fu assunto direttamente come dipendente della casa editrice Einaudi: dopo un soggiorno a Roma, si rifugiò durante l'occupazione tedesca in un paese del Monferrato, presso la sorella, guardando con amarezza gli eventi della Resistenza. Dopo la Liberazione, si iscrisse al partito Comunista e cominciò a collaborare all'Unità. Seguirono anni di lavoro molto intenso, in cui egli scrisse e pubblicò le sue opere di maggior successo. Venne trovato morto, per effetto di una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950.
OPERE
I suoi inizi di poeta, ma di una poesia (Lavorare stanca, 1936) che, nata in clima ermetico-decadente, tende a superarne l'ossessivo soggettivismo mediante la proiezione oggettiva di quelli che sono e più saranno i temi di fondo di P.: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene, a difesa dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto pensiero della morte. Oggettivazione che, dal giro largo del verso (sull'esempio, appunto, di Whitman) alla discorsività del tono, già porta alla narrativa: e la sua opera successiva è infatti di narrazioni brevi o lunghe (non di romanzi propriamente detti) improntate a un realismo che, se risente della lezione verghiana, e più di quella letteratura nord-americana di cui frattanto P. si era fatto traduttore e introduttore (con Vittorini) in Italia, ha però profonde radici in quel suo amore di piemontese per la propria terra, per il linguaggio della sua gente, specie a livello contadino o operaio, da cui egli mutua vocaboli e cadenze per il frequente, agile «parlato» dei suoi racconti. Un realismo che peraltro non va disgiunto da una schietta vena di lirismo, scaturente da una memoria che, facendo centro sull'infanzia, s'innalza all'assoluto, al mito o sfocia nel simbolo; onde la sua narrativa, dopo un primo, violento balzo (quasi in polemica con la letteratura tradizionale) nel verismo più crudo, all'americana (Paesi tuoi, 1941), si svolgerà nell'alternativa di questi modi, da La spiaggia (1942) a Feria d'agosto (1946), da Il compagno (1947) e Dialoghi con Leucò (1947) a La luna e i falò (1950), da Notte di festa (post., 1953) a Festa grande (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto,1959) a Ciau Masino (post., 1968). Non senza, certamente, squilibri e smagliature, ma molto spesso con intensità d'ispirazione e d'espressione, toccando i vertici artisticamente più alti là dove, con la mediazione di un paesaggio che è trepido contrappunto di senso (o natura) e sentimento, quei modi finiscono col convergere e compenetrarsi: come in Prima che il gallo canti (1949) e La bella estate (1949). Per dare tuttavia luogo, alla fine, quando vicende intime rafforzeranno, senza scampo, il pessimismo e la vocazione suicida di P., di nuovo alla poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (post., 1951); ma questa volta lontana dalla prosasticità di Lavorare stanca, per quanto è vicina alla lirica «pura», anzi alla pura liricità. Testimonianza importante non pure del suo travaglio intellettuale e morale, ma di quello di tutta una generazione e un'età, sono anche gli scritti critici di P. (La letteratura americana e altri saggi, post., 1951), il diario (Il mestiere di vivere, post., 1952), e soprattutto l'epistolario (Lettere, 2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di I. Calvino). La sua opera, pubblicata dall'editore Einaudi, è ora raccolta in 14volumi.
LUIGI PIRANDELLO
Tratto da: www.treccani.it
Pirandèllo, Luigi. - Drammaturgo e narratore (Girgenti , od. Agrigento , 1867 - Roma 1936). Apprezzato narratore, rivoluzionò il teatro del Novecento, divenendo uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi. Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana , nella sua opera si delineano una visione angosciosamente relativistica della vita e del mondo, che precorre temi definitivamente moderni. Fu il teatro, però, a diffondere ovunque la sua fama: dalla commedia borghese degli esordi, nella cd. seconda maniera il dramma dell'essere e del parere lievita in simbolo e allegoria dell'esistenza.
VITA E OPERE
Iniziati gli studî di lettere all'univ. di Palermo, li proseguì a Roma e li compì in Germania, dove si laureò con una tesi di argomento linguistico all'univ. di Bonn (1891; trad. it. La parlata di Girgenti, 1981) e cominciò a tradurre le Elegie romane di Goethe (pubbl. 1896), assecondando un'iniziale vocazione poetica (Mal giocondo, 1889; Pasqua di Gea, 1891), in seguito testimoniata da poche altre raccolte (Elegie renane, 1895; Zampogna, 1901; Fuori di chiave, 1912). Stabilitosi a Roma nel 1893 e introdotto da L. Capuana negli ambienti giornalistici e letterarî, si dedicò a un'intensa attività pubblicistica e creativa (dal 1913 anche con soggetti e sceneggiature per il cinema), insegnando nel contempo (1897-1922) all'Istituto superiore di Magistero (per la nomina a professore gli valsero gli studî su Arte e scienza e quello fondamentale su L'umorismo, pubblicati nel 1908). Il tracollo dell'impresa paterna in cui erano stati investiti tutti i beni della famiglia (1903) ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita, soprattutto per l'acuirsi dei disturbi nervosi della moglie (Antonietta Portulano, da lui sposata nel 1894), di cui nel 1919 si rese necessario il ricovero definitivo in una clinica di Roma. A partire dal 1915 fu sempre più assorbito dall'esperienza del teatro, anche nella regia, con frequenti spostamenti all'estero; diresse il Teatro d'Arte di Roma (1925-28) e creò una propria compagnia, chiamandovi come prim'attrice la giovane M. Abba, alla quale rimase legato da profonda passione fino alla morte. Accademico d'Italia dal 1929 (nel 1924 aveva suscitato scalpore la sua pubblica richiesta di iscrizione al partito fascista), nel 1934 gli era stato conferito il premio Nobel per la letteratura. Nel 1949 la Villa del Caos dove era nato fu dichiarata monumento nazionale.
Se nei suoi versi giovanili, pieni di echi soprattutto leopardiani, il tono dominante è ancora quello di un vago pessimismo, nelle prime novelle (Amori senza amore, 1894; Beffe della morte e della vita, 2 serie, 1902-03; Quand'ero matto..., 1902; Bianche e nere, 1904) e nei romanzi (L'esclusa, 1901; Il turno, 1902) comincia già a delinearsi una visione più problematica e angosciosamente relativistica della vita e del mondo. Pur prendendo le mosse dal verismo di scuola siciliana (De Roberto, Capuana e soprattutto Verga), P. concentra infatti l'interesse sulle discordanze che si rivelano, nei personaggi e nelle vicende, tra l'essere e il parere, e interviene nel racconto con un'ironia e un umorismo che già oltrepassano il canone naturalistico dell'impersonalità narrativa; mentre la prosa tende al discorsivo, al parlato, per lo sviluppo che comincia ad avervi il dialogo. Tali caratteristiche, che emergono in pieno nel romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), considerato il capolavoro del P. narratore, sono proprie anche delle successive raccolte di novelle (Erma bifronte, 1906; La vita nuda, 1910; Terzetti, 1912; Le due maschere, 1914, poi intitolata Tu ridi, 1920; La trappola, 1915; Erba del nostro orto, 1915; E domani, lunedì..., 1917; Un cavallo nella luna, 1918; Berecche e la guerra, 1919; Il carnevale dei morti, 1919) e dei romanzi che le intramezzano o seguono (Suo marito, 1911, più tardi in parte rifatto col tit. Giustino Roncella nato Boggiolo, post., 1941; I vecchi e i giovani, 2 voll., 1913; Si gira..., 1916, tit. poi mutato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925; Uno, nessuno e centomila, 1926), anche se non sempre con uguale ricchezza d'invenzione e felicità di resa artistica. E sebbene un piglio realistico rimanga sempre in P., i modi della narrativa verista appaiono ora, oltre che superati, capovolti; perché sullo sfondo provinciale e borghese di quella narrativa, e nel bel mezzo dei temi che le sono proprî (gelosie, adulterî, terzetti matrimoniali, pazzie, vendette), prende rilievo un'inquietudine nuova, per la quale il nome di P. è stato giustamente accostato a quello dei maggiori esponenti del decadentismo italiano ed europeo: l'ansia dell'uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi della vita per essere soltanto sé stesso e inutilmente si sforza di comporre il dissidio tra forma (maschera) e vita(autenticità). Ai personaggi della narrativa verista, "vinti" ma non privi di una loro grandezza epica, succedono così in P. figure di medî o piccoli borghesi, di impiegati, professionisti, pensionati e simili, squallidi rappresentanti di una società priva d'ideali (giusto il contrario dei superuomini dannunziani), e condannati per l'impossibilità di comunicare a un tetro o arrovellato solipsismo; e la narrazione si fa convulsa e aggrovigliata, intesa com'è a seguire le tortuosità del pensiero e a creare intorno a personaggi e vicende un'aria allucinata, di caos.
E poiché in tale forma narrativa, così portata all'evidenza scenica, è già implicita quella drammatica, il passaggio di P., a un certo momento, dall'una all'altra risponde a una naturale esigenza della sua arte. Il suo teatro, analogamente alla narrativa, da cui del resto derivano la maggior parte degli spunti drammatici, si muove dapprima sulle orme della commedia borghese allora in voga, di cui accetta le situazioni e i canoni, sia pure per piegarli al nuovo contenuto e colorirli di un umorismo con forti venature grottesche (Lumie di Sicilia , 1910; Pensaci Giacomino!, 1916; Liolà, 1916, scritta originariamente in dialetto siciliano; Così è (se vi pare), 1917; Il piacere dell'onestà, 1917; La patente, 1918; Ma non è una cosa seria, 1918; Il berretto a sonagli, 1918; Il giuoco delle parti, 1918; Tutto per bene, 1920; Come prima, meglio di prima, 1920; La signora Morli, una e due, 1920; ecc.). Ma poi quegli schemi vengono abbandonati e il clima si fa di dramma e di tragedia (Sei personaggi in cerca d'autore, 1921, l'opera scenicamente rivoluzionaria che, insieme con Ciascuno a suo modo, 1924, e Questa sera si recita a soggetto, 1930, costituisce la cosiddetta trilogia del "teatro nel teatro"; Enrico IV, 1922; Vestire gli ignudi, 1922; L'uomo dal fiore in bocca, 1923; La vita che ti diedi, 1923;Diana e la Tuda, 1927; Come tu mi vuoi, 1930; Quando si è qualcuno, 1933; Non si sa come, 1935): è il teatro che si suol dire della "seconda maniera", ma che in verità continua e perfeziona la prima; dove, superata l'angustia dell'ambiente provinciale, quel dramma dell'essere e del parere, di vita e forma, quella nostalgia del focolare distrutto e della famiglia, degli amori, delle amicizie dissolti nel frantumio della personalità, sono ormai contemplati sub specie aeternitatis, quasi fuori del tempo e dello spazio; e quel realismo allucinato lievita in simbolo, in allegoria, fino a sfiorare il "mistero". Il che, se non sempre avviene con pienezza di risultati artistici, in quanto si accentua anche l'innata tendenza di P. a cristallizzare in sillogismi o in sofismi (il cosiddetto pirandellismo di P.) la suggestiva spontaneità di certi gridi, è tuttavia riprova di un'ispirazione più alta, più lirica, come dimostrano anche le novelle degli ultimi anni. Restò incompiuta la sua ultima opera, I giganti della montagna (1ª rappr., post., 1937), il più ispirato tra i "miti" moderni (La nuova colonia, 1928; Lazzaro, 1929), che P. concepì in parte avvicinandosi alla poetica di Bontempelli. Con il suo teatro, mentre utilizzava gli stimoli della più viva sperimentazione europea (non escluso il teatro futurista), P. indicava al contempo una direzione di ricerca che avrebbe largamente influenzato la drammaturgia posteriore; così come, reagendo con la sua disadorna, antiletteraria parola al virtuosismo verbale e musicale dell'età dannunziana, egli accompagnava piuttosto e precorreva le esperienze della letteratura più giovane (Alvaro, Moravia, Brancati).
L'autore stesso provvide a riordinare editorialmente la sua produzione drammaturgica (col tit. complessivo Maschere nude) e novellistica (col tit. Novelle per un anno). La prima raccolta delle Maschere nude (11 commedie in 4 voll., 1918-21) apparve presso Treves; la seconda (39 drammi in 31 voll.) presso Bemporad (voll. I-XXV, 1920-29) e poi Mondadori (voll. XXVI-XXXI, 1929-35); a Mondadori, divenuto suo unico editore, fu anche affidata la terza raccolta (43 drammi in 10 voll., 1933-38). Le Novelle per un anno(15 voll.) furono affidate al fiorentino Bemporad (voll. I-XIII, 1922-28) e poi a Mondadori (voll. XIV, 1934, e XV, post., 1937). Presso questa casa editrice vide la luce l'ed. post. di tutte le Opere di L. P. a cura di M. Lo Vecchio-Musti (6 voll., 1957-60), comprendente anche un vol. di Saggi, poesie, scritti varii (1960), ed è ancora in corso la nuova ed. completa diretta da G. Macchia (Opere di L. P., 1973 segg.). Oltre a varî carteggi (tra cui Carteggi inediti con Ojetti-Albertini-Orvieto-Novaro-De Gubernatis-De Filippo, 1980), sono state pubblicate le Lettere a Marta Abba (1995).
ITALO SVEVO
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Svèvo, Italo. - Pseudonimo dello scrittore Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di Livenza 1928). È ritenuto uno dei principali esponenti della cultura mitteleuropea. Nei suoi tre romanzi Una vita (1892, ma con data 1893), Senilità (1898), e La coscienza di Zeno (1923), sono espressi i tratti salienti della sua opera, derivati in modo stringente dalle esperienze personali di S. e dalla temperie culturale in cui egli visse, quali la vocazione squisitamente autobiografica; il carattere antiletterario della prosa; l'uso di modi espressivi riconducibili al suo plurilinguismo (al dialetto triestino, al tedesco); la presenza di tematiche e procedimenti, come il monologo interiore, che l'apparentano alla corrente del romanzo d'analisi europeo.
VITA
Figlio di un commerciante ebreo d'origine tedesca sposato a un'italiana, seguì studi commerciali a Segnitz am Mein (Baviera) e poi a Trieste. E qui, dopo essere stato impiegato in una banca, si dedicò alla gestione della ditta Veneziani, produttrice di vernici sottomarine, di proprietà della famiglia della moglie. Subì, fin da giovane, il fascino della letteratura, con la quale intrattenne sempre, tuttavia, un rapporto conflittuale, considerando tale sua inclinazione come una sorta di malattia, al confronto con l'operosa concretezza incoraggiata dall'ambiente affaristico di cui faceva parte; e la scrittura non fu mai intesa da lui come esercizio estetizzante, ma piuttosto come mezzo per la conoscenza di sé e del mondo. La sua appartenenza, d'altra parte, a un'area culturale come quella triestina, tendenzialmente cosmopolita e legata politicamente a una nazione di lingua tedesca (condizione, quest'ultima, emblematicamente riassunta nel suo stesso pseudonimo), se gli consentì una grande apertura d'orizzonti (la formazione schopenhaueriana e la predilezione per J. P. Richter e la narrativa francese e russa dell'Ottocento; l'amicizia con J. Joyce, da lui conosciuto a Trieste come professore d'inglese; i numerosi viaggi all'estero, di carattere non solo commerciale; il contatto ravvicinato con le dottrine di Freud), lo mise altresì in una situazione di marginalità e di estraneità rispetto alla coeva letteratura italiana, e gli fece mancare i riconoscimenti dei suoi stessi concittadini, legati, per ragioni nazionalistiche, alla strenua difesa della purezza della lingua e della tradizione. Morì in seguito a un incidente automobilistico.
OPERE
In Una vita, ancora vicino ai modelli del naturalismo, S. narra la vicenda del giovane impiegato di banca Alfonso Nitti, occupato in un'incessante analisi dei suoi gesti e pensieri e spinto al suicidio non tanto dall'ostilità del mondo quanto dalla sua propria inettitudine a comprenderne e accettarne le regole; in Senilità, che alcuni considerano la sua opera narrativamente più riuscita, il protagonista Emilio Brentani, che ha avuto da giovane ambizioni letterarie, è scosso dal suo torpore per l'improvviso accendersi di una passione amorosa, dalla quale uscirà sconfitto per rinchiudersi definitivamente in una precoce senilità dello spirito; infine, in La coscienza di Zeno (1923), il romanzo, scritto dopo un lungo periodo di silenzio, cui si deve la tardiva scoperta dell'autore (il "caso S.") da parte della critica italiana (con il saggio di E. Montale sulla rivista L'esame, 1925) e straniera (J. Joyce, B. Crémieux,V. Larbaud), abbandonati definitivamente i modelli della narrazione realistica, lo scandaglio analitico di S. fruga con indulgente ironia nella coscienza stessa del protagonista, l'inetto e nevrotico Zeno Cosini, indotto dal suo psicanalista a raccontarsi per meglio comprendere la propria malattia; malattia che si rivela la condizione stessa dell'uomo contemporaneo, reso incapace, dai suoi progressi e dalla sua sterile problematicità, di ogni impulso positivo, "sano", all'azione. I riconoscimenti finalmente ottenuti giovarono a corroborare e raffinare le doti di S., aprendo una breve ma feconda stagione, cui appartengono, oltre alla revisione linguistica di Senilità (1927; un'ed. critica delle due redazioni a confronto è apparsa nel 1986, come parte di un progetto di ed. critica completa a cura di B. Maier, avviato nel 1985), molti dei racconti postumamente pubblicati in La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ed altri scritti (1929) e in Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti (1949). Quasi completamente postuma è la conoscenza della produzione teatrale (La verità, 1880; Un marito, 1903; La rigenerazione, 1927-28), raccolta solo nel 1960 in un volume di Commedie, a cura di U. Apollonio; allo stesso curatore si deve il volume di Saggi e pagine sparse (1954), che comprende tra l'altro le collaborazioni giornalistiche di S. all'Indipendente e poi al Piccolo di Trieste. Da ricordare, infine: il Diario per la fidanzata. 1896 (a cura di B. Maier e A. Pittoni, 1962); l'Epistolario, primo dei 4 volumi di Opera omnia (a cura di B. Maier, 1966-69); il Carteggio tra S. e Montale (a cura di G. Zampa, 1976); il Carteggio con J. Joyce, V. Larbaud, B. Crémieux, M. A. Comnène, E. Montale, V. Jahier (a cura di B. Maier,1978); gli Scritti su Joyce (a cura di G. Mazzacurati, 1986).
GRAZIA DELEDDA
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Delèdda, Grazia. - Scrittrice italiana (Nuoro 1871 - Roma 1936). Scrittrice intensa e feconda, la sua fama si diffuse anche all'estero; nel 1926 le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua narrativa muove dal verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi; ma a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con cupi accenti, si accompagnano o piuttosto si contrappongono un'ansia di liberazione e di riscatto, un estroso e romantico senso della vita, che trovano espressione soprattutto nella leggerezza idillica e trasognata del paesaggio.
VITA E OPERE
Sposatasi nel 1900 con P. Madesani, si trasferì a Roma. Esordì giovanissima con novelle e romanzi, pubblicati in modesti giornali e riviste; la prima notorietà le venne dal romanzo Anime oneste (1895), presentato da R. Bonghi, a cui seguirono La giustizia, 1899;Dopo il divorzio, 1903, ristampato col titolo Naufraghi in porto, 1920; Elias Portolu, 1903; Cenere 1904; L'edera, 1908; ecc., che presentano inconciliati i termini del dualismo tra il mondo del male e l'ansia del riscatto. Ma via via, come quella visione religiosa che la D. ha della vita viene temperando il suo biblico rigore in un senso di cristiana pietà, così quel contrasto tra verismo e lirismo viene sempre meglio componendosi in un'aria incantata, favolosa, dove le vicende umane arcanamente s'intrecciano con quelle della natura e del paesaggio. Le novelle di Chiaroscuro (1912), i romanzi Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913) segnano i varî gradi di questo processo di fusione tematica e stilistica, il quale culminerà nei romanzi e racconti del cosiddetto secondo periodo o maniera della D. (Il segreto dell'uomo solitario, 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Annalena Bilsini, 1927; La vigna sul mare, 1932; Cosima, post., 1937; ecc.), che mostrano come la sua narrativa, affrancatasi ormai da ogni regionalismo, per certi aspetti partecipi (fra gli autori prediletti della D., insieme con Verga e i romanzieri russi, ci fu sempre D'Annunzio) di quell'atteggiamento della sensibilità e del gusto che va sotto il nome di "decadentismo".
ANTONIO FOGAZZARO
Fogazzaro ⟨-zz-⟩, Antonio. - Romanziere italiano (Vicenza 1842 - ivi 1911). Indagò nelle sue opere il mondo sentimentale e religioso dei protagonisti (Malombra, 1881; Daniele Cortis, 1884; Piccolo mondo antico, 1895, ritenuto il suo capolavoro) e affrontò il conflitto tra fede e scienza, e tra cattolicesimo e mondo moderno. Il romanzo Il Santo (1906) venne messo all'Indice per la sua impostazione modernista.
VITA E OPERE
Ebbe un'educazione religiosa e patriottica, dallo zio don Giuseppe, e poi da G. Zanella; ma perdette sin dall'adolescenza la fede religiosa, alla quale tornò attivamente in seguito alla lettura (1873) della Philosophie du Credo di A.-A. Gratry. Dopo alcuni tentativi poetici (Miranda, 1873; Valsolda, 1876), il F. trovò nel romanzo la forma a lui congeniale. Malombra (1881) preannuncia i successi dei migliori romanzi, non soltanto per l'ispirazione fondamentale autobiografica che è più o meno propria di tutte le opere del F., ma anche per quell'acuto spirito d'osservazione, che gli fa cogliere dal vero e rendere felicemente figure e figurine. A Daniele Cortis (1884), che segnò la sua piena affermazione, seguì il non felice Mistero del poeta (1887). Ma F. andava intanto meditando dal punto di vista cattolico alcuni problemi scientifici e sociali, primo tra i quali quello della teoria dell'evoluzione. Per F. quella teoria non solo non era in contraddizione con l'insegnamento religioso, ma anzi conferiva a esso un valore più alto, un significato più "poetico", giacché l'evoluzione gli si palesava come una creazione divina che dura in eterno, sempre più perfezionandosi in sé stessa. Il conflitto tra senso e spirito non sarebbe dunque in fondo che il conflitto stesso tra l'uomo inferiore e l'uomo di grado in grado sempre più perfetto che si va evolvendo da quello. Di queste idee il F. si fece propagandista (Ascensioni umane, 1899); e i suoi romanzi non sono in fondo che le storie di alcune di queste evoluzioni. Piccolo mondo antico (terminato nel 1895) è il più compiuto, idealmente e artisticamente, dei romanzi del F.: in esso il problema religioso è vissuto dai protagonisti nella loro viva esperienza sentimentale, e costituisce pertanto il suo motivo centrale, senza inaridirlo con disquisizioni teoriche, come avviene in troppe altre pagine di Fogazzaro. Piccolo mondo antico ebbe larghi e profondi consensi anche ufficiali (F. fu nominato senatore nel 1896). Meno felici e ambigui i due romanzi che seguirono: Piccolo mondo moderno (pubblicato dapprima nella Nuova Antologia, 16 dic. 1900 segg.) e Il Santo (1906), terzo romanzo della trilogia. Erano gli anni del movimento modernista, al quale, almeno in un secondo tempo, F. partecipò con ardore, accettandone in pieno, tra l'altro, il punto di vista circa la possibilità di sottoporre a critica storica i testi biblici. Specialmente Il Santo si propose di rinnovare le coscienze dei cattolici. Artisticamente mancato, nonostante particolari bellezze, esso non poteva peraltro avere e non ebbe influenza in questo senso. La condanna all'Indice del romanzo (5 apr. 1906) prelude alla condanna del modernismo (1907). F. si sottomise, anche pubblicamente, ma ciò non gli risparmiò attacchi di alcuni cattolici fra i più intransigenti, e d'altra parte gli cagionò clamorose e assurde accuse di anticlericali. L'ultimo suo romanzo, Leila (1911), coi suoi personaggi "cattolici all'antica" vuol segnare l'allontanamento di F. dagli intellettuali riformatori glorificati ne Il Santo: ma batte artisticamente, con stanchezza, le vie precedenti, e concettualmente si risolve, con la sua polemica contro i "farisei" del cattolicesimo, in una satira del mondo clericale. Troppo glorificato per alcuni anni sia come artista, sia come pensatore e quasi come apostolo di una nuova religione, la reazione passò poi i limiti dell'equo. È necessario sottolineare la profonda sincerità con cui il F. concepì, assimilò e fece valere le sue idee; ricordare che alcuni ambienti dell'Italia borghese e provinciale hanno trovato in lui un pittore finora insuperato; che penetrò a fondo nelle anime complesse dei suoi personaggi; e che insomma il F. è, dopo il Verga, il maggiore romanziere italiano dell'ultimo Ottocento.
ALDO PALAZZESCHI
Tratto da: www.traccani.it
Palazzéschi ‹-zz-›, Aldo. - Pseudonimo dello scrittore Aldo Giurlani (Firenze 1885 -Roma 1974). P. ha manifestato il suo estro funambolesco fin dall'esordio come poeta crepuscolare e nell'effimera adesione al futurismo. Ha attraversato l'esperienza dell'avanguardia di inizio secolo, quella del «ritorno all'ordine» degli anni Venti e in seguito la ripresa sperimentale delle avanguardie degli anni Sessanta con una sua inconfondibile giocondità, enigmatica e inafferabile, attraverso la quale ha tratto alla luce sproporzioni e incongruità, in un'irridente distruzione dei rapporti normali tra le cose.
VITA
Si dedicò alla letteratura dopo aver frequentato una scuola di recitazione inisieme a Moretti di cui divenne grande amico e assunse lo pseudonimo di Palazzeschi dal cognome della nonna. Dopo essere stato costretto, durante la guerra, all'esperienza militare, visse nel dopoguerra una vita appartata e solitaria, rimanendo estraneo al fascismo e impegnandosi soprattutto in un'attività di narratore, che gli guadagnò i favori del pubblico. Collaborò dal 1926 al Corriere della sera. Visse a Firenze fino al 1950, anno in cui si trasferì a Roma. Nel 1957 gli fu consegnato dall'Accademia dei Lincei il premio internazionale Feltrinelli per la letteraturra; nel 1960 gli venne conferita dall'università di Padova la laurea in lettere honoris causa.
OPERE.
Esordì come poeta crepuscolare (I cavalli bianchi, 1905; Lanterna, 1907; Poemi,1909), di una malinconia venata non tanto di ironia quanto di un estro funambolesco. Effimera fu la sua adesione al futurismo (L'incendiario, 1910; 2a ed. ampliata 1913). Ma poiché l'intimo ritmo dei suoi versi (cfr. la raccolta completa delle Poesie, 1925; ed. definitiva 1930) era narrativo, P. ben presto trovò più adeguata espressione nella prosa di racconti e romanzi: la quale, d'altro canto, da quella ancor diafana di Riflessi (1908; poi raccolto, insieme ai successivi Il codice di Perelà e La piramide, con il tit. Allegoria di novembre, in Romanzi straordinari, 1943) e Il codice di Perelà (1911; nuova ed., col tit. Perelà uomo di fumo, 1954), a quella narrativamente più nutrita e complessa delle opere successive (Il re bello, 1921; La piramide, 1926; Stampe dell'800, 1932; Sorelle Materassi, il suo libro più famoso,1934; Il palio dei buffi, 1936; I fratelli Cuccoli, 1948; Bestie del '900, 1951; Roma,1953; Il buffo integrale, 1966; Il doge, 1967; Stefanino, 1969; Storia di un'amicizia,1971), recherà sempre come la filigrana di quei versi, essendo similmente intessuta di dialoghi, filastrocche, cavatine, e attenta ai valori di suono, asintattica e anacolutica per «magia» di stile. La narrativa di P., movendo da un bozzettismo toscano e ottocentesco, di un realismo crudo e un po' becero, giunge - non senza, certo, virtuosismi e artifici - a una leggerezza verbale e musicale da opera buffa: dove quel realismo si contempera col surrealismo di uno spirito caricaturale che, anche quando sembra voler pungere, è pieno di pietà e cristiana carità per quei singolari personaggi, a mezzo fra la «pura follia» di una vita fantastica e la tristezza, e tristizia, della comune esistenza. Altre opere di P.: Due imperi... mancati (1920), ispirata da sue personali esperienze della prima guerra mondiale; Tre imperi... mancati (1945), relativa alla seconda guerra mondiale e al fascismo, di cui egli fu costante avversario; Scherzi di gioventù (1956), raccolta di pagine giovanili; Ieri, oggi e... non domani (1967), che riunisce i suoi elzeviri; e una serie di poesie «della vecchiaia» (Viaggio sentimentale, 1955; Cuor mio, 1968; Via delle cento stelle, 1972), vivide peraltro - come i racconti di questo stesso periodo - di un'inventiva e di una comunicativa in cui si è più che mai acuito quell'amoroso attaccamento del poeta alla vita, al flusso esistenziale pur così pieno di dolore. Rinvenuto tra le carte del Fondo P. (donate alla Facoltà di lettere dell'univ. di Firenze), è stato pubblicato nel1988 il romanzo Interrogatorio della contessa Maria, vivace ritratto di un anticonformistico personaggio femminile, scritto forse prima del 1915.
GIOVANNI PASCOLI
Tratto da: www.treccani.it
Pàscoli, Giovanni. - Poeta (San Mauro, od. San Mauro P., 1855 - Bologna 1912). Con la sua ricerca linguistica audacemente sperimentale, P. aprì la strada alla rivoluzione poetica del Novecento. Con la raccolta Myricae, la poesia italiana sembra scrollarsi di dosso le incrostazioni della tradizione per far riemergere le cose, la natura, fino ai più umili animali e alle più piccole piante, come se fossero stati appena scoperti dall'occhio umano. La metrica, la musica stessa del verso appare più libera, piena di echi e di rinvii che si prolungano nell'animo del lettore. I colori, gli odori e i suoni si mescolano per creare paesaggi e atmosfere che assumono un potere incantatorio, quasi ipnotico. In una prosa del 1897, Il fanciullino, P. definiva il suo modo di intendere e di fare poesia: il segreto era di affidarsi a uno sguardo nuovo come quello di un bambino che riscopre la realtà, ovvero ricrea il mondo liberandolo dalla patina delle abitudini. Quello sguardo è la poesia stessa dotata di sensi più sottili e audaci in grado di accedere al mistero che circonda la realtà e al dolore che minaccia anche le forme più splendenti.
VITA. Q
uarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli Vincenzi. Dal padre, Ruggiero, amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia, lungo il Rio Salto, fu mandato a studiare, dopo la prima elementare, a Urbino, nel collegio Raffaello, tenuto dagli Scolopi. Qui egli si trovava con i fratelli Luigi e Giacomo, più grandi di lui, e Raffaele, quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, ucciso in un agguato il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L'assassino restò impunito, anche se non mancarono i sospetti, a lungo coltivati da Pascoli. L'anno dopo morirono la sorella maggiore, Margherita, e la madre, seguite dai fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Dal 1873, vinta una borsa di studio, Giovanni si era trasferito a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci, entrando in un periodo di sbandamento spirituale e d'irrequietezza. Amico di A. Costa, aderì ai primi movimenti socialisti e si legò agli ambienti dell'estremismo. Per aver partecipato, nel maggio 1876, a una manifestazione ostile nei confronti del ministro dell'Istruzione, R. Bonghi, perse la borsa di studio; dal 7sett. al 22 dic. 1879 fu addirittura in carcere, accusato di attività sovversive. Ripresi nel 1880 gli studi interrotti, P. si laureò nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo fu nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; nel 1884 fu trasferito con lo stesso incarico a Massa, dove chiamò presso di sé le sorelle Ida (n.1863) e Maria (n. 1865); dal 1887 al 1895 insegnò al liceo di Livorno. Dal 1895 al1897, P. insegnò come professore straordinario grammatica greca e latina nell'università di Bologna; dal 1897 al 1903, come ordinario, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito a Pisa, dove insegnò grammatica latina e greca sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Il prestigioso trasferimento, accettato come risarcimento tardivo, non rimase senza conseguenze per l'opera stessa del poeta. Più volentieri peraltro che alle relazioni intellettuali e all'insegnamento universitario, da lui sentito come un peso, P. applicava il suo ingegno allo studio e al lavoro poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio (oggi Castelvecchio P. nel comune di Barga) in Garfagnana, dove s'era sistemato nell'estate del 1895 e che soltanto nel 1902 aveva potuto acquistare. Qui si ritrovava con Maria, la sua Mariù (procurandogli un grande dolore, Ida s'era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895, mentre egli aveva rinunciato ai propri propositi matrimoniali), appena glielo permettevano i doveri dell'insegnamento, e qui venne seppellito, pur essendo morto a Bologna. A Castelvecchio Maria restò sino alla sua morte (1953), gelosa custode delle memorie e delle carte del fratello (poi accessibili agli studiosi nell'archivio di casa P.), di cui lasciò un'importante biografia, Lungo la vita di G. Pascoli (post., 1961, con integrazioni di A. Vicinelli).
OPERE
Quelli della ricomposta unità familiare sono anni di grande tenerezza e di malinconica rassegnazione; l'atmosfera in cui maturarono le poesie di Myricae (se si eccettuano Il maniero e Rio Salto, che nella prima stesura risalgono al 1877, e Romagna, che risale al 1880). Del 1891 è la prima edizione di questo, che rimane il libro più tormentato di P., mentre nel 1892 il poemetto Veianus gli assicurava la medaglia d'oro nel concorso di poesia latina di Amsterdam (dove ne avrebbe ottenute negli anni successivi altre dodici. Contrariamente a quanto indurrebbe a supporre la cronologia delle sue pubblicazioni, la poesia pascoliana alternò sin dal primo momento temi minori e minimi a temi vasti e complessi; ma negli ampi cicli di ispirazione patriottica e nazionale che negli ultimi anni il poeta andava progettando, e in parte realizzò, influì certamente il fatto che egli si ritenne obbligato a raccogliere - contro la sua più genuina natura - l'eredità del Carducci, anche in quanto poeta della storia e della gloria nazionale (Le canzoni di re Enzio, pubbl. tra il1908 e il 1909, e i Poemi italici, 1911, poi nel vol. post. Poemi italici e canzoni di re Enzio, 1914; gl'incompiuti Poemi del Risorgimento, pubbl. post. da Maria nel 1913insieme con l'Inno a Roma e l'Inno a Torino , composti in latino e da P. stesso volti in italiano). È a questo improbabile vate che bisogna pensare, per capire come il socialismo umanitario a cui P. era approdato dopo il sovversivismo giovanile potesse svolgersi nella presa di posizione imperialista dell'orazione La grande proletaria si è mossa, pronunciata a Barga nel 1911, in occasione della guerra libica. Analogamente, avevano giocato un ruolo decisivo nella composizione dei Poemi conviviali (1904) l'invito a collaborare al Convito di A. De Bosis e le sollecitazioni di G. D'Annunzio. Dopo i tentativi giovanili (pubbl. da Maria nel vol. di Poesie varie, post., 1912, nuova ed. 1913), l'aspetto del poeta che per primo s'impone all'attenzione del lettore è indubbiamente quello di una grande sostenutezza formale incongruamente posta al servizio della riscoperta di cose «comuni» e «quotidiane». L'incongruità risulta stridente in rapporto alle esperienze eccezionali consegnate alla poesia nello stesso giro d'anni da D'Annunzio e, sia pure in maniera meno evidente, anche se riferita alla vena civile e alla magniloquenza di Carducci. Proprio in quanto «ultimo figlio di Virgilio», secondo una celebre definizione dello stesso D'Annunzio, P. si trova invece perfettamente a suo agio tra seminati e uccelli, tra opere e operai dei campi e dei villaggi, ma non per questo compie una ricerca meno audacemente sperimentale, anche in fatto di metrica, rendendo ulteriormente rigorosa la poesia barbara carducciana e, per tale sua maggiore fedeltà ai modelli classici, pervenendo a soluzioni molto più avanzate. Il suo è un polemico classicismo a oltranza, di cui il gusto antiquario dei Poemi conviviali(1904; nuova ed. 1905) e il latino dei Carmina (2 voll., post., 1914) costituiranno le prove più vistose. Ma lo stesso ambizioso ideale di emulazione, senza l'obbligo dei troppo diretti riferimenti tematici, vive già compiutamente nei versi della prima raccolta, nell'umile mondo delle «cose» della «campagna», dove «arbusta iuvant humilesque myricae», come recita il motto del libro, liberamente tratto dai versi iniziali della quarta egloga di Virgilio (Sicelides Musae, paulo maiora canamus. Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae «Muse di Sicilia, solleviamo il tono del canto. Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»), che in vario modo il poeta avrebbe utilizzato anche a contrassegno delle successive raccolte. Gli «occhi velati ma attenti» del poeta modernamente non possono che cercare, tra lo stupore e lo sgomento, le ragioni d'una pena segreta, mentre al nitore classico vengono restituite anche le sensazioni più sfuggenti, in una poesia che, a prescindere dalla realtà sulla quale si sofferma, si rivela capace, come quella antica, di recuperare, se non il parlato, un più ampio spettro tematico e una maggiore naturalezza. E poco male se, coerentemente con le convinzioni espresse nella prosa Il fanciullino (pubbl. sul Marzocco, 1897), la naturalezza viene per un paradosso riconquistata con un metodico abbassamento o quasi una regressione alla espressività infantile, sempre all'insegna di un'illusione di aderenza assoluta alle cose. Questo nodo indissolubile di ricordi infantili e reminiscenze letterarie che si stringe intorno a una campagna reale, è anche l'orizzonte culturale e linguistico straordinariamente determinato all'interno del quale soltanto, coniugando il minimo di artificio con la massima precisione, la memoria può nutrire una sua mitologia elementare, compensando il bene perduto (l'«infanzia» e la «madre», riassunti nel «nido») con il tentativo di ricomporre questo nido nelle dimensioni della coscienza e nel sacrificio della vita al raccoglimento sentimentale e intellettuale. Artista essenzialmente analitico, come tutti i simbolisti, il simbolista involontario P. vede e ama soprattutto i particolari, che trascrive con superstizioso rispetto della precisione, immerso in un'auscultazione ansiosa della realtà, che tendenzialmente degrada il linguaggio a onomatopea o viceversa a una pura nomenclatura, quasi magicamente sostitutiva della materiale datità degli oggetti designati. Quando il poeta passa poi dal semplice al complesso, dal quadretto alla scena, dalla scena al ciclo che celebri con un più largo respiro le opere e i giorni dei suoi contadini romagnoli e toscani, insomma dalle Myricae (1aed., di ventidue brevi componimenti, 1891; 6a ed. defin. 1903) ai Poemetti (1897; 2aed. accr. 1900; poi sdoppiatisi in Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1909), aiCanti di Castelvecchio (1903; 6a ed. defin. 1912), sempre identico appare il suo atteggiamento, come di chi analizza e scompone e disperde anche quando vuol costruire. Per apprezzare appieno la diversità delle strategie compositive seguite dal poeta, si deve allora avere l'accortezza di seguire più da vicino la tessitura pascoliana, che rimpiazza l'organizzazione sintattica del discorso con un andamento ellittico in cui regnano le analogie, attingendo esiti diversi, a secondo che predominino le soluzioni per le quali opportunamente si è parlato di impressionismo, o quelle, non solo narrative, di maggior impegno (per esempio, il recupero con intenti innovativi della terzina dantesca). In P. si riconosce spesso il punto di partenza del linguaggio poetico del Novecento, oltre che per la forte suggestione di una poesia pura ante litteram, svincolata dai temi convenzionali e problematicamente rapportata alla tradizione, anche per l'autorevole esempio da lui fornito di un'alternativa al monolinguismo lirico di ascendenza petrarchesca. Formatosi in una cultura dominata dal pensiero positivista, P. esprime nuove esigenze spirituali, sulla linea di tanti altri poeti e narratori italiani tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento. L'estrema piccolezza e labilità dell'uomo e dello stesso mondo è un dato della ragione; compito della poesia, egli dice, è farlo diventare un dato di sentimento; far diventare «coscienza» quello che è semplicemente «scienza». Ma per conto suo P. non compone il dissidio: la sua poesia «cosmica» nasce appunto dall'urto tra scienza e coscienza, tra l'uomo che sa di dover/">dover morire, e che tutto con lui morrà, e il fanciullino che non vuole rassegnarsi, che «non sa» morire. Il tema della morte, in cui confluisce quello della tragedia familiare (si pensi ad alcune delle più note poesie come Il giorno dei morti,X agosto, La cavalla storna), acquista in P. con gli anni un'importanza determinante. La morte è il «mistero» di fronte al quale non si può che arretrare impauriti, che provare sgomento come il bimbo del buio e cingere il proprio mondo di una siepe, concentrando lo sguardo e l'anima sulle cose concrete che ci sono d'intorno e dalle quali si può trarre una consolazione simile a quella d'una poesia inavvertita dai più. Tutto questo travaglio spirituale è naturalmente alle radici anche di quella parte dell'opera pascoliana che potrebbe sembrare più lontana dalla sua vita privata; cioè dei carmi in latino con la loro istituzionale ufficialità. In realtà, come nelle traduzioni tecnicamente perfette dai classici (raccolte da Maria nel vol. di Traduzioni e riduzioni, post., 1913, insieme con altre pregevolissime da poeti stranieri moderni), così nelle opere originali d'argomento classico, in latino e in volgare, P., oltre a spingere alle estreme conseguenze il suo sperimentalismo, mette alla prova la sua profonda identificazione sia sentimentale sia culturale con i poeti del mondo antico. Le poesie latine, i Carmina, a prescindere da un gruppo di epigrammi e di componimenti in metri lirici, constano essenzialmente di poemetti d'argomento romano, ispirati sia alle vicende politiche (Res romanae) sia alla storia letteraria di Roma (Liber de poetis), e d'argomento cristiano (Poemata christiana): questi ultimi, che costituiscono un gruppo a sé e rappresentano, in modo approssimativo dal punto cronologico, ma rigorosamente dal punto di vista spirituale, un'evoluzione del gusto poetico del P. latino, contengono alcune delle pagine più belle di tutta la produzione pascoliana. Ed è stato bene osservato che anche i Poemi conviviali -prendano essi lo spunto da Omero o da Platone, da Esiodo o da Apuleio o da Plinio - sono nella loro essenza, a prescindere dalla ricchissima e squisita decorazione a mosaico, la ricostruzione di una paganità pervasa dagli oscuri presagi della futura morale cristiana. Del resto la tendenza alla gnomica morale e politica, tendenza che trova la sua più precisa espressione nel volume di Odi e inni (1906; 3a ed. defin., post., 1913), è ben visibile in P. sin dalle Myricae, anche se con gli anni si accentua, giacché, in curioso contrasto con la poesia simbolista e con la stessa sua poetica, egli assegnò costantemente alla poesia una funzione ammaestratrice. Il poeta «fanciullino» che è sempre pronto a stupire di tutto, a scoprire il grande nel piccolo e il piccolo nel grande e nelle cose le «somiglianze e relazioni più ingegnose»; che non ha altro fine e altro bisogno se non quello di esprimere ingenuamente il suo candido stupore; questo romantico «fanciullo» è, e vuole essere, anche «predicatore». Ed è importante osservare come l'opposizione tra questi due termini, cioè tra la poesia-poesia e la poesia variamente moralistica, è del P. prima ancora che del Croce. ː P. teneva moltissimo ai suoi scritti di critica dantesca (Minerva oscura, 1898; Sotto il velame, 1900; La mirabile visione, 1902; Conferenze e studi danteschi, post., 1915), nei quali, riprendendo una tendenza esegetica che aveva avuto a campione G. Rossetti, approfondì gli studi sulla simbologia della Commedia. Nel poema, che sarebbe stato composto interamente a Ravenna dopo la morte di Arrigo VII, P. vide rappresentata la mistica morte in Cristo, mediante la quale si risorge alla vera vita. Dalla selva oscura del peccato originale l'umanità riguadagna la divina foresta del paradiso terrestre, riconquista cioè l'innocenza anteriore al peccato. Difficile riconquista perché l'Impero non svolge più la sua funzione e la fede non può condurre a salvezza se non è integrata dalla giustizia terrena. L'interpretazione mistica, non esente da pericolose sottigliezze, fu freddamente accolta; di che P. si accorava. Ma il meglio della sua opera di critico è nelle finissime osservazioni sparse nelle due antologie latine (Lyra, 1895; Epos, 1897) e nelle due italiane (Sul limitare, 1899; Fior da fiore, 1901), specialmente a commento dei poeti o dei momenti di poesia a lui più vicini. Si vedano infine le raccolte di prose: Miei pensieri di varia umanità (1903, in gran parte ristampata in Pensieri e discorsi, 1907); Patria e umanità (post., 1914); Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino (post., 1925). ː Tutte le opere di P. sono state pubblicate in quattro volumi: Poesie, con un avvertimento di A. Baldini (1939); Carmina, a cura di M. Valgimigli (1951); Prose, a cura di A. Vicinelli: I. Pensieri di varia umanità (1946); II.Scritti danteschi (2 tomi, 1952).
Tratto da: www.treccani.it
ITALO CALVINO
Tratto da: www.treccani.it
Calvino, Italo. - Scrittore (Santiago de Las Vegas , Cuba, 1923 - Siena 1985). Narratore tra i più significativi del Novecento italiano, nella costellazione letteraria disegnata dalle sue numerose opere si ibridano compiutamente vocazioni e temi diversi, dall'impronta neorealistica degli scritti iniziali a quella allegorico-fiabesca della produzione più matura. Nella sua prosa, dove sono accolte e filtrate le più alte suggestioni del panorama letterario coevo e dove lo scrittore si rivela spregiudicato sperimentatore di linguaggi e generi, alla lucidità della descrizione analitica fanno da costante contrappunto il lirismo e l'ironia, sostanziati da una riflessione profonda e disingannata sul senso ultimo dell'esistenza umana. Tra le sue opere principali: Il visconte dimezzato(1952); Il barone rampante (1957); Il cavaliere inesistente (1959); Le città invisibili (1972); Sotto il sole giaguaro (1986).
VITA E OPERE
Figlio di Mario, partecipò alla Resistenza. Svolse poi una regolare attività di consulente editoriale, collaborò a varî giornali e riviste e diresse con E. Vittorini (1959-66) Il menabò di letteratura. Visse lungamente a Parigi. Fin dal suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), ispirato alla Resistenza, e dai racconti di Ultimo viene il corvo (1949), è evidente come la tendenza al realismo e quella al fantastico siano in lui complementari, nutrite dal medesimo esaltante repertorio di letture avventurose e rigorosamente giocate intorno al nucleo generativo della pura narratività. Nell'alternarsi così del registro realistico (la raccolta complessiva I racconti, 1958, o il romanzo breve La giornata di uno scrutatore, 1963) e di quello fantastico (i già citati contes philosophiques di Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, poi raccolti nel volume I nostri antenati, 1960), si deve riconoscere la stessa lucida vocazione sperimentale, capace di riconquistare alla letteratura l'antico senso di esperienza totale e di frontiera della conoscenza, attraverso l'assunzione di temi scientifici e la percezione del loro altissimo tenore fantastico. Si è potuto parlare quindi di fantascienza a proposito dei divertiti sondaggi tentati con Le cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967), ma nessuna etichetta che non contempli il confronto con le più avanzate ipotesi di mediazione tra la cultura scientifica e quella letteraria può dar conto della ricerca successiva dello scrittore (il già citato Le città invisibili; Il castello dei destini incrociati, 1973;Se una notte d'inverno un viaggiatore, 1979), per la quale l'opera dell'argentino J.L. Borges costituisce un punto di riferimento privilegiato e non comunque un modello, e dalla quale è ormai inseparabile un'esemplare produzione saggistica (Una pietra sopra, 1980; Collezione di sabbia, 1984). Una fase ulteriore della stessa ricerca è rappresentata da Palomar (1983), in cui un più aperto scetticismo dello scrittore tende a tradursi in una specie di inattendibile sistema, mentre il narrare viene scomposto nelle sue funzioni elementari, rappresentate dai 27 brevi testi che intessono una virtuosistica organicità di romanzo. C. ha anche curato una raccolta di Fiabe italiane "trascritte in lingua dai vari dialetti" (1956). Postumi sono apparsi i tre racconti di Sotto il sole giaguaro e i testi di 5 delle sei conferenze che C. avrebbe dovuto tenere presso la Harvard Univ. nel 1985-86: Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988). Nel 2012 è stato edito a cura di L. Baranelli e M. Barenghi il volume Sono nato in America. Interviste 1951-85.
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